BMCR 2006.08.32

Nonnos de Panopolis, Les Dionysiaques. Tome XI, Chants XXXIII-XXXIV

, , , , , , , , , , Les dionysiaques. Collection des universités de France,. Paris: Les Belles Lettres, 2005. 19 volumes : illustrations (some color) ; 21 cm.. ISBN 9782251002002. €47.00 (pb).

Col tomo XI (e con gli altri appena usciti1) si avvia felicemente al termine l’edizione Budé delle Dionisiache : una delle imprese editoriali ed esegetiche più importanti degli ultimi decenni nel campo della letteratura greca, un vero monumento di filologia che Francis Vian e i suoi collaboratori hanno realizzato con energia e dedizione durante un trentennio.Bernard Gerlaud [G.], cui si devono già un’ottima edizione di Trifiodoro e un altro importante tomo nonniano,2 ha curato l’edizione e il commento dei canti 33-34, i primi due del ‘trittico’ che si estende fino al canto 35 (la divisione è dovuta solo a contingenze editoriali).3

I canti 33-34 trattano di un momento cruciale della guerra indiana: un attacco di follia causato da Era (che nei canti 31-32 aveva anche architettato una nuova ἀπάτη Διός) allontana Dioniso, che lascia i suoi seguaci ad affrontare da soli la battaglia contro gli Indiani. Le Baccanti, attaccate dal possente principe Morreo, vengono sbaragliate e spinte verso la città degli Indiani, dove sono massacrate o imprigionate. La situazione sarebbe anche peggiore, se la furia di Morreo non venisse in parte attenuata grazie all’intervento di Afrodite ed Eros che lo fanno innamorare di una guerriera nemica. Il ‘diversivo’ permette in qualche modo alle file dionisiache di resistere finché Zeus non si risveglia e Dioniso, rinsavito dal latte di Era (una delle scene di ‘allattamento paradossale’ che tanto piacciono a Nonno), può tornare rinfrancato a guidare l’esercito.

La narrazione si estende per due giorni di combattimento, occupati per buona parte dalla vicenda bellico-erotica di Morreo e Calcomeda, un vero e proprio ‘romanzo’ in cui l’innamoramento del principe Indiano per la vergine bacchica ha funzione di distogliere il temibile guerriero dalla battaglia e di dare un po’ di sollievo alle truppe dionisiache (come è detto esplicitamente in 33.364-365; 34.158-161). Così, all’interno di una cornice iliadica, Nonno ha alternato la narrazione bellica a quella più propriamente erotica, dando prova di una notevole originalità accompagnata a una complessa (e consapevole) organizzazione narrativa (G., pp. 21-33).

Originale è il trattamento delle due figure principali dei canti 33-34: Morreo, il conquistatore della Cilicia, genero del re Deriade, che Nonno assimila all’Eracle-Sandes dei Cilici (34.191-192), probabilmente anche sulla base di precedenti che possiamo solo supporre (i poemi di Dionisio e di Soterico, πάτρια di Tarso?); Calcomeda, la vergine bellissima, splendida come Afrodite ma ardimentosa come Artemide, che unisce le caratteristiche del tipo di Pentesilea e quelle della vergine cacciatrice: una sintesi per cui G. giustamente adduce i precedenti di Camilla in Virgilio e di Clelia in Livio (pp. 12-14). Ma Calcomeda è anche la vergine perniciosa, che indebolisce la forza dell’amante e lo inganna, alla pari di Polissena che nel romanzo troiano porta Achille alla morte. E dunque il feroce principe Indiano che si innamora, insegue in ogni luogo l’amata che fugge, nutre propositi adulterini, placa la sua furia guerriera, finisce per essere l’omologo in terra di Ares, proprio come Calcomeda è una nuova Afrodite (34.57): il vero motivo dominante di tutta la vicenda viene ad essere la superiorità della dea dell’amore sul dio della guerra, finché in 35.155-183 non compariranno i due dèi stessi, in un dialogo in cielo che suggella il trionfo di Afrodite-Calcomeda su Ares-Morreo.4

L’interesse dei canti 33-34 non si limita solo alla vicenda dell’amore di Morreo per Calcomeda. La ποικιλία, il principio base dell’estetica nonniana, prevede che all’interno della storia principale siano inseriti numerosi episodi digressivi: la descrizione del cottabo fra Eros e Imeneo in 33.81-98; il notturno in 33.266-279, variazione su Apollonio che si conclude con l’inattesa scena dell’elefante che dorme curiosamente appoggiato a un muro;5 il dialogo fra Morreo e il servitore Issaco (osceno nome parlante di matrice comica) in 34.21-88; il quadro, fra macabro e retorico, dei supplizi subiti dalle Baccanti in 34.221-248.

Nelle dense introduzioni (pp. 3-72 e 95-135) G. analizza in profondità le fonti letterarie utilizzate da Nonno: l’intertesto omerico, la tragedia euripidea, Apollonio Rodio (la lunga sezione che va da 33.21 a 34.102 — dall’incontro di Afrodite con Eros fino al sogno ingannatore di Morreo — è costruita come una variazione dell’innamoramento di Medea e Giasone in Apollonio Rodio 3.112-7436), il romanzo ( in primis Eliodoro e Achille Tazio), il cui schema consueto (peripezie e finale unione dei due innamorati) è rovesciato, dato che Morreo verrà deluso nel suo folle amore. Il poeta utilizza con originalità queste suggestioni, per costruire una storia che varia dal tragico, al lirico al grottesco, e che alterna sistematicamente fra il piano bellico e quello amoroso: un continuo cambiamento di punti di vista che spesso è stato condannato come confuso e inabile, e di cui invece G. giustamente mette in luce la struttura meditata, le indicazioni cronologiche e topologiche e anche la ricerca di equilibrio numerico nell’estensione delle varie sezioni. Tutto l’episodio è tracciato da Nonno sul principio della struttura ciclica e della composizione anulare, nonché della reduplicazione (G., pp. 31-33): una narrazione organizzata per quadri, secondo l’estetica musiva tipica della letteratura tardoantica, e più interessata agli aspetti descrittivi che ad approfondire la psicologia dei personaggi.

Dal punto di vista della constitutio textus G. si situa nella linea di moderato conservatorismo che caratterizza, fin dal primo volume di Vian (1976), tutta l’edizione francese: un atteggiamento dettato non dalla volontà di giustificare ad ogni costo la tradizione manoscritta, ma piuttosto da una matura consapevolezza delle modalità con cui Nonno costruisce la sua narrazione. La lunga consuetudine con lo stile nonniano, unitamente al simpatetico apprezzamento dei principi estetici tardoantichi, permette a G., in opposizione alla critica ‘analitica’ rappresentata soprattutto da Collart e da Keydell, di mostrare che le apparenti contraddizioni, ripetizioni, incongruenze, non sono dovute ad inabilità compositiva da parte del poeta o alla maldestra volontà di ampliare all’eccesso un più sobrio racconto originario, bensì a delle regole compositive ben precise, caratterizzate soprattutto dal principio della variazione e della Ringkomposition. La conseguenza è che nell’edizione G. il testo dei canti 33-34 risulta perfettamente compiuto, senza le lacune o le presunzioni di incompletezza spesso postulate dai suoi predecessori (le lacune indicate nell’edizione Keydell vengono dimostrate superflue: post 33.209, 33.251, 34.268, 34.272); analogamente molte correzioni del testo di L, ispirate al principio dell’analogia, vengono a buon diritto respinte da G., soprattutto in virtù di una convincente interpretazione del testo tràdito. Il testo differisce dall’edizione di Keydell in 18 punti (su 745 versi). Nel canto 33 ai vv. 200, 209 (dove l’accettazione di una minimale correzione di Falkenburg permette anche di evitare di segnare lacuna), 235, 251, 252, 278, 295, 336. Nel canto 34 ai vv. 21, 48, 150, 215, 263, 268, 272, 287, 288, 324.7

Alcune analisi del testo tràdito sono esemplari: ad es. 33.336; 34.126; 34.132, 34.287-289 (dove è dimostrato bene che non c’è bisogno di invertire l’ordine della paradosis). Non potendo dilungarmi in una discussione puntuale vorrei però almeno ricordare la semplice quanto efficace difesa della lezione di L a 33.336 (G., pp. 68-69, dove sono utilizzate anche osservazioni di F. Vian): σε (corretto invece in με da Marcellus e da tutti gli editori) è mantenuto in base ad un’analisi stringente di tutto il monologo di Calcomeda, che confronta la propria situazione a quella della ninfa Melis, invidiata perché riuscita a sfuggire al suo pretendente, e paragonata ad Asteria; l’andamento del discorso è assolutamente più conseguente con il σε (la correzione di Marcellus introduce un plausibile, ma fuori luogo, slittamento al piano personale).

Le argomentazioni di G. sono tutte condivisibili: qualche incertezza avrei solo su 34.48 (dove la minimale correzione di Keydell ῥίγησε introduce una notazione che ben si accorda con l’aggrottare delle ciglia di Morreo e non costringe a intendere il καί come ‘e poi’); e su 34.215 (troppo forte il sospetto che la lezione di L venga dal v. 211: manterrei la correzione di Keydell).8

Il commento, di notevole ampiezza (come già il precedente di G. ai canti 14-17), indaga in profondità gli aspetti linguistico-stilistici e quelli interpretativi, ed è inoltre formalizzato con grande chiarezza. Chi è interessato alla storia della trasformazione del codice epico in età postellenistica vi troverà molto materiale utile.Assolutamente condivisibile, inoltre, il fatto che l’opera di Nonno sia trattata come un unico sistema espressivo: assai frequenti sono i confronti tematici e formali con la Parafrasi, per la quale G. aderisce alle più recenti posizioni (Vian, Livrea e altri) di una composizione iniziata prima ma proseguita in contemporanea con il poema maggiore (vd. ad es. p. 257 n. 2).Una peculiarità (presente già nell’altro tomo nonniano di G.) è l’abbondanza di richiami alla poesia moderna, soprattutto quella barocca francese, non certo per improbabili Quellenforschungen, ma per sottolineare la vicinanza di Nonno con l’estetica del barocco moderno.9

Completano il volume tre Appendices : nella prima G., assai opportunamente, ristampa (sulla scorta di Marcellus) il bel rifacimento della scena del cottabo nel c. 33 ad opera del poeta settecentesco Lefranc de Pompignan, ulteriore prova che “de siècle en siècle Nonnos a su garder des lecteurs fidèles”.10

La seconda ( Nonnos “raciste”?) è dedicata a un problema spinoso: se il modo in cui Nonno tratta gli Indiani e il colore della loro pelle possa configurarsi come una forma di razzismo. Divergendo dalle opinioni di altri studiosi, G. ritiene che la categoria moderna di razzismo sia un anacronismo mal applicabile all’Antichità11 e che comunque l’insistita contrapposizione nelle Dionisiache fra il bianco dei Baccanti e il nero degli Indiani vada ricondotta non a presunti pregiudizi diffusi nell’Egitto tardoantico, ma a ragioni simboliche (opposizione fra il bianco e la luce del dionisismo e le tenebre degli empi Indiani) e al peculiare gusto per la contrapposizione coloristica che anima tutto il poema nonniano. Viene così ascritto a tale gusto anche una scena per noi particolarmente ripugnante, come quella in cui Morreo cerca di lavare via in mare il suo colore scuro per rendersi degno della candida Calcomeda (35.184-203).

La terza ( De la virginité des Bacchantes) riesamina una delle caratteristiche apparentemente più sconcertanti delle Baccanti nonniane, la loro verginità e la loro tendenza a rifuggire le unioni (a essere cioè παρθένοι φυγόδεμνοι): G. riesamina la questione dal punto di vista della tradizione mitico-letteraria sulle Baccanti e della temperie ideologico-religiosa in cui Nonno viveva. In realtà la predilezione per un’immagine casta delle seguaci di Dioniso non è peculiare del poeta delle Dionisiache, visto che la tradizione sulle Baccanti è ambigua su questo punto almeno fin da Euripide; Nonno però la sviluppa secondo la propria sensibilità di cristiano, modellando in qualche modo le Baccanti sulle vergini cristiane. Ma non si tratta di una operazione ideologica, quanto piuttosto dell’elaborazione di un tratto funzionale alle esigenze narrative e alla contrapposizione fra la purezza delle schiere bacchiche e gli Indiani, nemici della divinità, e caratterizzati dunque da smodati impulsi sessuali.

Con questo volume G. si conferma uno degli interpreti più fini e acuti della poesia nonniana: la sua edizione per ricchezza delle introduzioni, sicurezza nell’interpretazione, e chiara eleganza della traduzione, costituirà un sicuro punto di riferimento non solo per gli studiosi di Nonno, ma per tutti coloro che si occupano della trasformazione della tradizione epica e della letteratura tardoantica.

Notes

1. Segnatamente il tomo XV curato da P. Chuvin e M.-Ch. Fayant ( Chants XLI-XLII, Paris, Les Belles Lettres 2006) e il tomo XII curato da H. Frangoulis ( Chants XXXV-XXXVI, Paris, Les Belles Lettres 2006), che vengono dunque a concludere l’opera.

2. Triphiodore, La prise d’Ilion, Paris, Les Belles Lettres 1982; Nonnos de Panopolis, Les Dionysiaques. Tome VI: Chants XIII-XVII, Paris, Les Belles Lettres 1994 (uno dei migliori commenti della serie).

3. L’edizione Budé è apparsa pochi mesi dopo la mia e, dunque, purtroppo non ho fatto in tempo a tener conto del lavoro di G.: G. Agosti, Nonno di Panopoli. Le Dionisiache. Canti XXV-XXXIX, Milano, BUR 2004 (vd. R. Shorrock, BMCR 2006.03.37). Negli stessi mesi è uscito anche il terzo volume della traduzione italiana di M. Maletta, col commento di F. Tissoni ( Nonno di Panopoli. Le Dionisiache, III, Milano, Adelphi 2005).

4. Non andrebbero poi sottovalutate le risonanze ideologiche (anche ai fini dell’interpretazione complessiva del poema): per un lettore tardoantico la storia del Barbaro/Gigante sconfitto dall’Amore aveva innanzitutto un significato morale, come mostra chiaramente un passo di Temistio, che descrivendo la Gigantomachia che ornava il Senato dell’Augusteon a Costantiopoli si sofferma sull’immagine del Gigante raddolcito dall’amore per ricavarne una esortazione alla moderazione e alla saggezza ( Or. 13.18, 176d-177a).

5. Accettando la lezione di L, τοίχῳ, ingiustamente (e variamente) corretta proprio per la ‘stranezza’ di un elefante appoggiato alle mura.

6. Vd. anche N. Montenz, Nonno di Panopoli e Apollonio Rodio: tecniche di riuso e parodia nei canti 33-34 dei ‘Dionysiaca’, ACME 57, 2004, pp. 93-119.

7. In vari casi vedo che G. e io siamo arrivati alle stesse conclusioni, proponendo la difesa del testo tràdito; in altri mi rammarico di non aver potuto tener conto del testo di G., altrimenti non avrei accettato le correzioni di Keydell (o dei suoi predecessori). Ad es. avrei rinunciato senz’altro a consentire sulle lacune dopo 33.209, 34.268, 34.272), o alle correzioni in 33.278, 336; 34.263 (presupposta comunque nella mia traduzione), 34-287-289, 34.324. Approfitto anche per correggere la mia interpretazione a 34.244 (che forza il testo per spiegare un verso ellittico): ha senz’altro ragione G. a individuarvi un’allusione alla traversata a nuoto dell’Idaspe in 23.196-205 (e non dunque al fiume che sta soffocando la Baccante).

8. Giustamente invece G. mantiene la crux solo a 33.276, dove una scelta fra le varie correzioni è impossibile.

9. Molto da fare resta ancora in questo settore: indagini parziali in G. Braden, The Classics and English Renaissance Poetry, New Haven-London 1978, pp. 55-81; G. A., Poemi digressivi tardoantichi (e moderni), Compar(a)ison 1, 1995, pp. 131-151; S. Averincev, L’anima e lo specchio. L’universo della poetica bizantina, ed. it. Bologna, Il Mulino 1988, pp. 188-201.

10. Sulla fortuna delle Dionisiache, meno sporadica di quanto si pensi, fino al Novecento si veda F. Gonnelli, Nonno di Panopoli. Le Dionisiache. Canti XIII-XXIV, Milano, BUR 2003, pp. 7-40.

11. Sulla tematica si veda ora B. Isaac, The Invention of Racism in Classical Antiquity, Princeton, Princeton University Press 2004.