BMCR 2006.07.08

L. Caelius Firmianus Lactantius. Divinarum Institutionum Libri septem. Fasc. 1 Libri I et II. Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana

, , , Divinarum institutionum libri septem. Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana, 1265, etc.. München/Leipzig: Saur, 2005-2011. 4 volumes ; 20 cm.. ISBN 3598712995. €62.00 (pb).

Con questo volume (il primo di quattro, nei quali verranno distribuite tutte le Divinae Institutiones, in una successione prevista biennale) Heck e Wlosok ci presentano una nuova edizione dell’opera maggiore di Lattanzio, a più di un secolo di distanza da quella, che comunque era stata esemplare ed era stata la prima effettivamente critica, di S. Brandt per il CSEL (n. 19, Vindobonae 1890). I meriti dell’editore del CSEL resistono ancor oggi: Brandt dette il giusto orientamento alla recensio, individuò i manoscritti più autorevoli e costituì un buon testo. Per altri versi, il suo apparato appare, oggi, farraginoso e appesantito da varianti grafiche, e, soprattutto, il Brandt ritenne che le cosiddette ‘aggiunte dualistiche’ e le dediche a Costantino non fossero autentiche di Lattanzio, tanto che le rigettò in apparato, come se fossero delle banali interpolazioni (un’altra retractatio d’autore è probabilmente quella di p. 25,17 – 26,1). Altre critiche muovono Heck e Wlosok al testo del Brandt (pp. χ critiche che non è nostro compito, ora, ripetere; ci interessa, invece, osservare che i due recenti editori ritengono che le aggiunte dualistiche risalgano, come è più verisimile, ad una revisione d’autore, e che pertanto non sia scientificamente valido considerarle di minore importanza, relegandole all’apparato. Esse sono stampate, quindi, in questa edizione, nel testo ma in corsivo: l’impressione può essere quella di una edizione ‘mescolata’, ma risponde alla giusta esigenza di presentare le due redazioni dell’opera lattanziana. Naturalmente, queste aggiunte non si trovano in una ben distinta classe di manoscritti, vale a dire, i manoscritti che le contengono possono essere imparentati, per errori e omissioni, con quelli che ne sono esenti (p. XLII). È innegabile che sia esistito un archetipo (p. χχχ nel quale sarebbero confluite le due redazioni originarie, costituite dall’esemplare dell’autore stesso: come osservò Heck in alcuni suoi studi preliminari, Lattanzio avrebbe scritto o tra le righe o in margine le aggiunte più brevi, su fogli separati le aggiunte dualistiche e le lodi di Costantino (pp. XXXII-XXXIII). Per molti aspetti l’edizione di uno scrittore cos autorevole e noto, in ambito cristiano, come Lattanzio, presenta degli aspetti analoghi a quelle di alcuni testi pagani per i quali esistono manoscritti di grande antichità, come Virgilio e Tito Livio.

L’edizione di Heck e Wlosok si basa su di una nuova collazione dei manoscritti più antichi (buona parte dei quali furono già usati dal Brandt), e dell’apporto di altri tre relativamente pi recenti: il Cameracensis 1219 (del secolo ιχ il Casinensis (Montecassino, Biblioteca del Convento 595, del secolo χἰ, il Vindobonensis (Österreichische Nationalbibliothek lat. 719), del secolo XIII. Sarebbe stata desiderabile una sezione che ci presentasse una storia del testo in età moderna, dalla editio princeps, che costituisce, come è ben noto, una delle prime edizioni a stampa (Sweynheim e Pannartz, a Subiaco nel 1465), fino a quelle precedenti l’edizione del Brandt.

Il testo è costituito, per quello che attiene la ortografia, in modo ragionevole. Gli editori abbandonano la venerazione per il codice più antico (il famoso Bononiensis 701, della Biblioteca Universitaria di Bologna, risalente al V secolo), che aveva condotto Brandt a riprodurre fedelmente e in modo irritante le minuzie di quel testimone antichissimo. Heck e Wlosok rinunciano all’illusione che si possa ricostruire in modo verisimile la grafia del V secolo servendosi di un testimone coevo, dato che tale testimone riproduce, in prima istanza, l’ usus scribendi dello scriba (p. XLVI); anche le citazioni greche sono riportate, nell’apparato critico, con buon senso, più che con esasperata ricerca della fedeltà (p. XLIX). Da questo punto di vista, già l’edizione del Monat per le Sources Chrétiennes (nn. 326 e 337 [1986-1987] per i libri I e ιἰ, pur non essendo critica, aveva presentato un testo più equilibrato di quello di Brandt.

Gli editori hanno sottoposto a nuova collazione i manoscritti già impiegati dal Brandt, talora correggendone gli errori di lettura — alcuni di essi risalivano a coloro che gli avevano comunicato le lezioni di codici che egli non aveva visto: correggere le collazioni altrui è una cosa normale, ma che non toglie il merito del lavoro di chi ci ha preceduto e che si è comportato in modo probo. La revisione del testo, delle citazioni e delle testimonianze è stata aggiornata ed eseguita con accuratezza.

Il testo, almeno per questi due primi libri delle Divinae Institutiones, non presenta particolari difficoltà, e non ha richiesto interventi ed emendazioni di rilievo; gli editori si mostrano molto sensibili, nella scelta delle lezioni, alle esigenze del ritmo e delle clausole. Es. p. 16,12 ipsa di alcuni manoscritti, contro ipsam di altri e del Brandt ( contra numerum); p. 45,8 transnatasse invece di transnasse, per essere omofono di navigasse; 49,3 fingatur invece di figuretur di Brandt e Monat (con alcuni manoscritti), che è contra numerum; e ancora p. 66,8; 67,11 etc.

La lezione manoscritta viene riposta nel testo, in luogo delle congetture (anche se, ripetiamo, il testo appare sostanzialmente sano). Es. p. 2,1 (rinuncia alla congiunzione e preferenza per l’asindeto, come appare sempre più verisimile per i testi di tardo ciceronianesimo, e anche per altri); p. 3,15 disserenda i manoscritti contro la congettura adserenda di Brandt; p. 7,10 ipsa del testo di Brandt è un manifesto errore di stampa di contro a ipse dei manoscritti; p. 20,17 – 21,1 è riproposta la lectio difficilior, che suona: rectorem orbis terrarum et deorum omnium deum, invece di rectoris … dei; p. 25,12 Marmesso è lectio difficilior per Marpesso; p. 33,18 e è la lezione dei manoscritti, corretta solo dalla seconda mano di un codice in et, e ripresa a torto da tutti gli editori; a p. 51,3 forse avrei accettato monimenta invece di monumenta, dato che la forma arcaica è, in quel passo, bene attestata; p. 64,7 tamen è giustamente restituito di fronte alle correzioni tandem e tantum.

Heck e Wlosok sono senza dubbio i più esperti conoscitori delle Divinae Institutiones, anche se nell’affrontare i problemi critici ha maggiore esperienza il primo, mentre la seconda ha coltivato soprattutto il pensiero lattanziano (è nota la importante monografia su Lattanzio e l’ermetismo pubblicata da Wlosok nel 1960). La loro collaborazione ha prodotto, quindi, un’ottima edizione, che speriamo che possa procedere regolarmente con i fascicoli successivi, fino a mettere a nostra disposizione l’intera opera.