BMCR 2005.09.40

Sguardi su Ulisse. La tradizione esegetica greca all’Odissea. “Sussidi eruditi” 63

, Sguardi su Ulisse : la tradizione esegetica greca all'Odissea. Sussidi eruditi ; 63. Roma: Edizioni di storia e letteratura, 2005. 600 pages, 40 pages of plates : illustrations ; 24 cm.. ISBN 8884981921. €68.00.

Il lavoro è nettamente scandito in tre capitoli principali, I. L’esegesi antica (pp. 23-103), III. L’età bizantina (pp. 137-340), IV. L’Umanesimo (pp. 341-518); tra il primo e il secondo si intercalano pagine sull’esegesi odissiaca di tradizione papiracea (II: I papiri, pp. 105-136), mentre l’attività ecdotica moderna si trova censita nel cap. V ( Destini moderni degli scoli all’Odissea, pp, 519-534). Breve ma densa le sezione che ricapitola e tira le conclusioni sulle relazioni tra i manoscritti, culminanti nella domanda (p. 552) “gli scoli all’ Odissea fanno capo a un archetipo ?” (VI: Considerazioni sui rapporti tra i testimoni, pp. 535-555). Il tutto è preceduto da una Premessa (pp. 5-7), Abbreviazioni bibliografiche (pp. 8-18), Sigla (dei codici e dei papiri; pp. 19-20) e da una “Tavola sinottica di alcuni dei principali testimoni medievali e umanistici degli scoli all’ Odissea” (p. 21), nonché seguito da indici delle tavole (p. 557 s.), dei manoscritti e degli incunaboli (pp. 559-565), dei nomi (personaggi anteriori al 1600; pp. 567-580), dei principali scoli e passi omerici citati (pp. 581-593), dei termini greci rari o recenziori (p. 595 s.), del volume (pp. 597-600).

Il contenuto del libro è chiaro dal titolo, ed uno scopo principale è indicato con chiarezza dall’autore (pp. 5-6): “Lo Schwerpunkt è rappresentato dall’analisi della tradizione manoscritta, e in particolare degli apparati esegetici confluiti nei papiri e sui margini dei codici medievali … Se si è scelto qui … di provare a situare ciascuno di essi (scil. i testimoni) all’interno del proprio contesto storico, ciò si deve all’idea di fondo che ogni manoscritto rappresenti il frutto di un’intenzione precisa, comprensibile solo in una determinata cornice storica e geografica”. Da tenere presenti, nella lettura, le parole ancora dell’autore sulla selezione operata tra i “fili della tradizione di lettura e commento dell’ Odissea” (p. 5) e sui limiti imposti alla ricerca (p. 6).

Il I capitolo si sofferma, con impianto cronologico, sulle vicenda degli studi odissiaci sostanzialmente da Teagene al VI sec. d. C. (con esclusione di alcune ‘aree’per cui il materiale e incerto o non pertinente: ad es. l’attività dei rapsodi, la recensione pisistratea, il riferimento a Omero all’interno della stessa produzione letteraria greca). La rassegna si articola in una serie di schede dedicate ai nomi che si possano in qualche modo prendere in considerazione a proposito dell’esegesi all’ Odissea. L’impegno principale è quello di enucleare le diverse modalità via via affacciatesi (e ripetutesi) nell’affrontare il testo omerico. Si discute, così, l’allegoresi, nelle modalità prima di Teagene (pp. 25-27), poi in quelle di Aristotele (seppure limitate ad una testimonianza; p. 35), quindi degli Stoici (pp. 40-42), e quella di Cratete, nella prima età matura della filologia (p. 53). Accanto a ciò si mettono in rilievo le funzionalizzazioni etico-pedagogiche del V secolo, nonché l’ ὀρθοέπεια, con le sue naturali conseguenze per l’attività glossografica (p. 29 ss.). Non manca la distinzione tra i livelli di esegesi: insieme a quella di filosofi e sofisti, è testimoniata quella, essenzialmente glossografica, collegata alla scuola (Aristoph. fr. 233 K.-A.), o comunque a una comprensione immediata dei testi (cf. le testimonianze sui Γλωσσογράφοι). Un altro fil rouge è costituito dall’attività critico-testuale (da Teagene, ma difficilmente ancora con approccio sistematico; p. 26 s.) e editoriale (da Antimaco di Colofone: p. 33). Di Aristotele si mette in evidenza l’ampio spettro di interessi: dal punto di vista superiore espresso nella Poetica, all’approccio per “problemi e soluzioni” (continuata dai Peripatetici), all’attenzione per la coerenza sia etica sia narrativa (pp. 34-36). La rassegna sulla filologia alessandrina e pergamena (pp. 42-57) si svolge preceduta dalla seguente considerazione (p. 42): “fu ad Alessandria che, al termine di un processo lungo e articolato, s’affermò per la prima volta nella storia un forte e consapevole bisogno di costituire i testi omerici ” per se” (senza sovraimpressioni di connotati allegorici o di elementi allotr) e di commentarli in un’ottica globale con speciale attenzione al loro divenire storico”. Si analizzano qui, a partire dalle figure la cui attività sia in qualche modo interpretabile, la genesi e lo sviluppo dei metodi di costituzione ed esegesi dei testi omerici, il raffinamento di quelli già in voga, che, soprattutto nella loro integrazione, definiscono la prima stagione della filologia (con le debite distinzioni riguardo alla scuola pergamena: pp. 52-54). Va qui segnalato che l’A. prende posizione mediana rispetto alla spinosa questione dell’attività congetturale degli Alessandrini, riconoscendo sia la presenza di congetture sia ipotizzando “un lavoro di paziente recupero di lezioni da manoscritti circolanti” (p. 44). Seguono le vicende della esegesi omerica in età romana e imperiale, da cui, pur in presenza di tappe importanti in relazione a ciò che ci è rimasto, non si ravvisa molto di nuovo rispetto alla produzione precedente. C’è da segnalare che la trattazione di Apollonio Sofista (pp. 66-68) offre la prima occasione di valutare abbastanza direttamente il rapporto tra un lavoro di esegesi omerica e gli scoli all’ Odissea (da qui in poi sarà possibile diverse volte valutare quanto dei lavori omerici rimastici è stato integrato negli scoli: cf., ad es., le trattazioni di Eraclito a Apollonio Discolo). Eraclito, lo scritto Sul Sublime, Plutarco, annunciano una svolta, per cui “l’interpretazione di Omero vira decisamente dall’orizzonte critico-testuale e linguistico verso quello morale (difesa dell’eticità e della religiosità del poeta, ripresa del metodo zetematico) e, in prospettiva, allegorico” (p. 74); una prospettiva che culminerà nell’ “Omero mistico” (come l’A. intitola la sezione 6 di questo capitolo) dei cristiani e dei Neoplatonici. L’ultima sezione (la VII. pp. 88-96) è dedicata essenzialmente ai secc. V-VI: “l’importanza di questi secoli per la tradizione della critica omerica risiede” nel fatto che “in quest’epoca furono … allestite una serie di opere di compilazione che attinsero ampiamente ai commentari a Iliade e Odissea” (p. 89), con menzione di Oro, Orione, Metodio, etc. In una sorta di appendice (pp. 96-100) si affronta la delicata questione della cronologia del riversamento degli ὑπομνήματα sui margini del supporto dell’opera commentata. L’A., tra le due ipotesi principali del IX e della prima metà del V sec. prende posizione per la seconda, sulla base di diversi indizi: a) codici antichi provvisti di marginalia in maiuscola; b) la “diffusione in età tardoantica di codici con margini particolarmente ampi”; c) una testimonianza della Vita Procli di Marino (27. 11-19), V sec., ove “si accenna … a una pratica di apposizione di scoli marginali a un testo letterario”. Chiude il capitolo un sondaggio sulla diffusione dell’utilizzo di esegesi nata in funzione del testo di Omero nei corpora scoliastici di altri autori.

Il capitolo II copre l’esegesi odissiaca su supporto papiraceo. Una lista di 33 papiri (28 con le giunzioni) è reperibile a p. 19 (2 esaminati de visu, 25 in microfilm o fotografia, 6 non visti); la datazione va, tranne un caso, dal I al VI sec. d. C. L’A. nota una forte continuità tra il materiale esegetico fornito dai papiri e quello scoliastico medievale sui terreni della glossografia elementare (con gli scholia V), delle ἱστορίαι (cf. i papiri del Mythographus Homericus), e delle hypotheseis (p. 108). Inoltre, “non si notano linee di trasmissione privilegiata fra i papiri e uno o più testimoni medievali” (p. 109). Da p. 111 a p. 136 si susseguono schede dei papiri, divisi per tipologia di esegesi (è escluso il PAlex. inv. 198 [= h 22 ], per le ragioni che si trovano a p. 130): 1) i papiri con annotazioni marginali; 2) le hypotheseis; 3) i glossari; 4) il Mythographus Homericus; 5) i commentari. Ogni sezione è preceduta da un cappello introduttivo. Le schede forniscono i dati ‘tecnici’ e una descrizione del contenuto e soprattutto, ove possibile, un analisi sulla presenza o l’assenza di un rapporto tra il materiale contenuto nel papiro e la tradizione medievale. A p. 118, a proposito dei glossari papiracei si trovano osservazioni su un argomento che avrà particolare rilievo nella trattazione dei manoscritti medievali: l’A., infatti, pone la sua attenzione sulla fattura del manufatto per cercare di qualificarne gli scopi e la destinazione (nella fattispecie, uno dei papiri “può essere ricondotto con relativa certezza alla prassi scolastica”, per gli altri si identifica comunque l’appartenenza alla produzione subletteraria). La medesima introduzione ai glossari papiracei è l’occasione per una sintesi generale dei rapporti, nell’ambito del materiale glossografico (essenzialmente gli scholia V), tra testimoni papiracei e manoscritti medievali. I papiri con commentari, da parte loro, “sono di grande interesse, in quanto attestano, sia pure in misura frammentaria e in modo del tutto sporadico, la presenza e la circolazione di un patrimonio esegetico che spesso non ha più riscontro nella tradizione medievale” (p. 130).

Il III capitolo ( L’età bizantina) presenta anch’esso un impianto cronologico. A p. 183 si colloca una cesura: fino ad allora si parla di personalità e opere (grammaticali), da allora, con l’affiorare del Bodleiano Auct. V. 1. 51, del Laur. 32, 24, entrambi del X sec., e del Laur. Conv. Soppr. 52 dell’XI, la trattazione sarà dedicata essenzialmente ai manoscritti. Un breve rimando ad alcune questioni di contesto (p. 137 s.) introduce alla Bisanzio medievale, ove non si incontra nulla di significativo fino al IX secolo. Compaiono allora grammatici o comunque personalità collegate, anche debolmente e in maniera ‘personale’, a lavoro esegetico sull’ Odissea (Giorgio Cherobosco, Leone il Matematico, Cometa, Fozio, Areta, Niceta magistro, quindi Psello, Giovanni Italo, Niceta, e infine Isacco Porfirogenito, Costantino Manasse, Giovanni Tzetze, Eustazio, con una ‘appendice su Michele Kakos Senacherim a p. 200 s.) e opere grammaticali (gli Epimerismi omerici, gli scholia D all’ Iliade, il Viermänner-Kommentar, gli scoli esegetici all’ Iliade, l’ Etymologicum Genuinum, il lessico Suda, poi gli Etymologica Magnum e Gudianum, gli scoli h all’ Iliade). Di tutti viene valutato nel dettaglio il rapporto con la lettura dell’ Odissea, ma per le vicende del suo corpus scoliastico non tutti gli episodi hanno il medesimo significato. Dal confronto degli scoli V all’ Odissea con gli scoli D all’ Iliade“si può concludere con relativa certezza che il corpus degli scholia V all’ Odissea sia stato concepito e redatto nello stesso ambiente che aveva prodotto quello degli scholia D all’ Iliade” (sulla natura e lo scopo di questa raccolta, vd. p. 148). L’indagine dei rapporti tra il Genuinum e il nostro corpus scoliastico fornisce una conferma negativa: “dev’essere abbandonata la prospettiva di ricostruire in base a EGen brani della storia antiquissima delle sillogi scoliastiche all’ Odissea, così come d’altra parte dev’essere grandemente ridotta la speranza di trarre giovamento da EGen per la costituzione del testo dei nostri scoli” (p. 155). Per quanto riguarda il XII secolo, caratterizzato nei riguardi di Omero dalle parole a p. 160, l’A. si impegna in una rivalutazione di Isacco Porfirogenito, ma sono Giovanni Tzetze e Eustazio a occupare l’attenzione (pp. 163-178). Tzetze si propone un commento integrale al poema e, per primo in quest’epoca, è convinto della necessità di “una … precisa collocazione” di Omero “nel tempo e nello spazio che gli competono, mirante a una comprensione “filologica” del suo significato, dei suoi limiti e della sua grandezza”, sviluppando, tra l’altro, un metodo organico di allegoresi, di cui si ritrovano excerpta negli scoli all’ Odissea, con non disprezzabile frequenza. Eustazio viene caratterizzato come studioso e la sua opera valutata negli scopi e nella costruzione. Riguardo all’esegesi odissiaca, la situazione rispetto all’individuazione delle sue fonti viene definita “fluida” (p. 173): se da una parte si riscontra l’utilizzo di materiale a noi noto per altri versi, “specie negli ultimi libri, dove i corpora scoliastici sono in varia misura deficitari, Eustazio diventa una fonte importante per ricostruire possibili scoli perduti” (p. 174). Segue una esemplificazione dei rapporti tra Eustazio e i nostri scoli, con opportune raccomandazioni di metodo a p. 174 s., sulla ricostruzione di scoli perduti. Per questa sezione riteniamo sia infine da segnalare la valutazione che l’A. dà del Gudianum, che “andrà attentamente considerato codicis instar per la costituzione del testo degli scoli che cita” (p. 181).

Come si è sopra anticipato, le pp. 183-340 sono essenzialmente occupate dai testimoni manoscritti medievali di scoli all’ Odissea, anche se alle pp. 266-273 sono poste in rilievo e ‘schedate’ le maggiori personalità filologiche della Rinascenza paleologa. Ovviamente, non ci si potrà fermare sul dettaglio. Alle pp. 19 s. sono elencati dall’A. 58 codici, tutti esaminati personalmente (8 in microfilm o fotografia). Anche qui si trova la strutturazione per schede singole, che contengono, in prima istanza, la descrizione e la storia del manufatto, quindi una analisi filologica, per la valutazione del Bestand scoliastico, per la collocazione del manoscritto nella storia della tradizione, per il contributo che può offrire (o, anche, non offrire), e, infine, quando possibile, per una definizione dello scopo della confezione del manufatto. In linea generale, qui la sequenza strettamente cronologica viene in parte subordinata (se si escludono V o, G e F) a una logica “topografica”: le sezioni 4. e 5. del capitolo sono infatti rispettivamente intitolate a Il XIII secolo: Nicea e le aree provinciali e a Costantinopoli, 1261-1350: l’età della Rinascenza paleologa. L’attenzione al milieu di produzione e circolazione dei diversi manufatti, se provinciale o ‘urbana’, è tenace e continua. A p. 208 si conclude “Nel complesso, la tradizione del testo omerico in Terra d’Otranto mostra scarsi connotati di autonomia e una speciale attenzione alla destinazione scolastica e alle esigenze dell’apprendimento”, mentre a p. 266 sono le frasi essenziali sullo studio di Omero nella Rinascenza paleologa.

Il IV capitolo ha anch’esso impianto cronologico: la distinzione è tra “primo Umanesimo”, “pieno Umanesimo italiano” e “autunno dell’Umanesimo italiano” (un criterio geografico è solo nella prima sezione, dove si distinguono Oriente e Occidente). Ogni sezione è preceduta da un quadro di sintesi del contesto culturale in cui si colloca lo studio dell’ Odissea (da cui si conclude, ad esempio, che “a partire dal 1400 la storia della filologia orientale è inestricabilmente legata ai suoi destini occidentali” [p. 342]; sintesi sul primo Umanesimo italiano a p. 361). Qui la situazione documentaria consente e consiglia un diverso equilibrio tra la considerazione dei testimoni anonimi e le personalità individue che, a diverso titolo, possono essere messe in rapporto con la tradizione esegetica all’ Odissea. Tant’è vero che, nelle prime due sezioni, all’introduzione del pioniere Leonzio Pilato (pp. 348-354) seguono diverse schede dedicate a “I maestri” (pp. 371-408; Andronico Callisto, Teodoro Gaza, Demetrio Calcondila, Giovanni Argiropulo, Angelo Poliziano, Costantino Lascaris) e a “I copisti” (pp. 408-442), mentre per i manoscritti anonimi troviamo solo le pp. 343-347 (codd. orientali) e le pp. 442-453. Così come la sezione su “L’autunno dell’Umanesimo italiano” è scandito dalle presenze di Giano Lascaris, Fulvio Orsini, Marco Musuro, Arsenio Apostolis, Gian Francesco d’Asola e le loro imprese, più o meno riuscite, editoriali e paraeditoriali. La trattazione dei manoscritti ha la medesima impronta di quella del capitolo precedente. Si notino, qui, i dati forniti relativamente all’attività anche congetturale degli Umanisti sia in sé (per Orsini vd. p. 480) in funzione dell’allestimento di un testo destinato alle stampe (per Lascaris, vd. pp. 472 ss.).

Il V capitolo, dopo una breve rassegna di manoscritti tardi, orientali e occidentali, contenenti materiale esegetico all’ Odissea (di nessun valore ecdotico), si appunta sulle edizioni a stampa degli scoli al poema. Le vicende degli scholia V vengono trattate separatamente, attraverso, anche qui, una serie di schede che descrivone diverse edizioni da Parigi 1530 alla seconda edizione Lipsiense del 1824, con in più la raccolta dei mitografi di Fowler (Oxford 2000). Su questi scoli, l’A. annota (p. 521): “il punto culminante della vicenda editoriale degli scholia V fu raggiunto nel 1711, quando Joshua Barnes li arricchì — talora arbitrariamente — e li migliorò alquanto sul piano testuale” (su Barnes vd. soprattutto p. 525). A ciò segue un repertorio delle cure editoriali dedicate ad altri scoli (Alter 1794: XY; Porson 1800: H; Mai 1819: BEQ; Buttmann 1821: BEQPVaHXY; Preller 1839: T; Cobet 1841: H; Dindorf 1855, che aggiunge a Buttmann la collazione di MR di Cobet, la sua collazione di S, e ‘allarga’ H con il materiale di Cramer; in prefazione e appendice vi sono i risultati di sue collazioni di Vo, H, D e T; Ludwich 1888-90). Dal rapporto emergono oggettivamente le ragioni del disagio provato dal consapevole fruitore delle edizioni degli scoli all’ Odissea : selezione e stratificazione arbitraria del materiale, inaccuratezza linguistica, mancata revisione dei testimoni, disattenzione ai rapporti tra gli stessi (lacune presenti in maggiore o minore misura) giustificano, o per meglio dire esigono una nuova edizione.

Il VI e ultimo capitolo tratta dei rapporti tra i testimoni. È il frutto dell’enorme lavoro illustrato nei capitoli III e IV. Si apre con considerazioni di metodo riguardo all’operazione di apparentamento o meno tra due codici contenenti scoli (tra i fatti da tenere presenti: la possibilità che divergenze testuali siano dovute a scelte redazionali, la presenza o meno di determinati scoli nell’uno o nell’altro testimone, la possibile diversa fonte o cronologia di copia di testo e apparato scoliastico), che pervengono al monito (del resto sempre presente a chi si occupa di materiale di questo tipo): “ma queste osservazioni di dettaglio s’inseriscono in una problematica più generale, che concerne il basso grado di “autorialità” del genere scoliastico: gli scoli sono testi servili, quasi mai percepiti come testi di qualcuno, e dunque vanno soggetti a ogni sorta di modifica, abbreviamento, ampliamento, rifusione” (p. 536). La situazione, ridotta all’osso, si configura nella presenza di due famiglie: una rappresentata essenzialmente da H e M, l’altra, “orientale”, con in prima linea DEX. I rapporti indagati sono tra HM e la famiglia “orientale” (pp. 537-543: sembra si possa concludere che la famiglia “orientale” “abbia almeno in certi casi avuto accesso a esemplari della tradizione HM migliori (e forse più antichi) rispetto agli stessi H e M”), tra H e M (pp. 543-545), tra D, E, e X (pp. 545-548). Dopo una valutazione della tradizione degli excerpta porfiriani, si ha una breve ma densa sezione (pp. 552-555) sull’esistenza o meno di un archetipo degli scoli all’ Odissea. La conclusione è “credo che buona parte della tradizione manoscritta dei nostri scoli (certo quella rappresentata da H e da X) debba essere ricondotta a un archetipo non anteriore al IX sec. d. C.” (p. 555).

Il I capitolo si configura come una compilazione articolata e ottimamente informata. La base è nel susseguirsi di una serie di schede, con cui si cerca di combinare l’aspetto cronologico della vicenda esegetica odissiaca, con quello sistematico dei metodi di indagine (eccellente, ad esempio, nei dichiarati limiti e propositi di sintesi, la scheda su Aristarco, p. 50 s.). In particolare, tali metodi vengono enucleati con chiarezza e con le opportune distinzioni al loro interno (penso, ad esempio, ai diversi tipi di allegoresi; appare piuttosto chiaro, ad es., come l’unico esempio di allegoresi aristotelica serva, diversamente da altre, per interpretare il testo, non per giustificare il poeta; p. 35). Una particolare menzione positiva merita la rassegna a partire dall’età augustea, che riguarda un periodo non coperto da un lavoro di sintesi del livello della Storia della filologia classica di Pfeiffer. Per l’economia del lavoro è giusta la esplicita mancata considerazione di momenti della “ricezione” piuttosto che della “esegesi” (ad es. Senofane ed Eraclito, p. 25), ma a un certo punto viene introdotto Platone (p. 33 s.), senza particolari frutti per la storia dell’interpretazione omerica. A p. 35 s. si afferma che “dalle osservazioni di Aristotele in merito all’efficacia drammatica e alla credibilità dei poemi omerici dipesero in larga parte le teorie estetiche e letterarie alla base degli scoli esegetici”. Ora, ciò ha qualche riscontro (bibliografia pertinente a p. 36 n. 48), ma è da ritenere che la questione abbia pressante necessità di approfondimenti: ad esempio, da una Tesi di dottorato discussa all’Università “La Sapienza” di Roma (2004/05; dott. Eleonora Mazzotti) si vede come i termini esegetici legati al “vero” e alla “verisimiglianza” siano utilizzati con tale minima densità teorica o specialistica da sembrare assunti dal linguaggio comune, e come tali sono pressoché inservibili ai fini di una riconduzione a presupposti teorici definibili.

Importante è il rilievo dato agli studi letterari dei Peripatetici (pp. 36-39), un contributo non sempre valutato in funzione degli studi e dei metodi esegetici che li precedono e li seguono. Vengono rilevate l’indagine biografica e la critica zetematica, due pratiche, notiamo, assenti dai frammenti ‘filologici’ degli Alessandrini.

La questione del passaggio dal IV al III sec. e, quindi, il problema della ‘nascita’ della filologia classica viene affrontato in termini più dialettici e impegnati rispetto a quella che è la norma degli interventi sulla questione. Si parla, giustamente, di “esercizio della pratica filologica a un alto grado di consapevolezza e “militanza”, di “ferace melting pot di stimoli già in embrione esistenti” (p. 42; si veda anche la frase citata sopra, dalla medesima pagina): quest’ultimo è fondamentale presupposto per capire che è l’integrazione dei metodi e degli approcci è una delle novità rilevanti. Tuttavia rovescerei quanto si afferma a p. 36: “Aristotele si nasconde anche dietro alcuni dei principi-guida della prima filologia alessandrina (in questo rispetto è ormai superata la posizione di Rudolf Pfeifffer, che sosteneva la teoria contraria)”; piuttosto è superata la posizione degli “aristotelici”, che va sempre vagliata alla luce dello studio di Pfeiffer. A me è sembrato che qualcosa dello statuto distinto della filologia del III secolo si potesse ricavare dalla selezione dei metodi compiuta dai filologi-poeti, e che ciò andasse in direzione della posizione di Pfeiffer (vd. R. Pretagostini [cur.], La letteratura ellenistica. Problemi e prospettive di ricerca, Roma 2000, pp. 183-198). È necessario, in generale, uno sforzo di focalizzazione del dettaglio, e starei quindi attento a immettere tout court nella filologia alessandrina, quali eredità aristoteliche, la grammatica, di cui non si può parlare fino ad Aristarco (se va bene), o la critica zetematica, ben poco (o per nulla) attestata nei frammenti ‘filologici’ del III secolo (p. 36). Avrei piuttosto menzionato, in questo senso, la “teorizzazione” aristotelica della γλῶσσα in Poetica e Retorica, anche se non abbiamo notizie di un suo influsso diretto sulla pratica glossografica successiva. Del resto, di come siano difficili da sradicare punti fermi della vulgata in realtà problematici si vede dal fatto che l’A., in una peraltro buona caratterizzazione di Filita di Cos (p. 43) parla ancora “di nuovi termini di provenienza omerica” e di “glosse omeriche”: può essere che tali glosse abbiano costituito l’oggetto, anche prevalente, dell’interesse glossografico di Filita, ma non ve n’è traccia in ciò che di lui ci rimane.

Eccellenti e di particolare utilità sono i confronti (che, abbiamo visto, ricorrono a partire da Apollonio Sofista) tra le opere di esegesi omerica e la dottrina presente negli scoli: lavoro che richiede un’acribia cui l’A. dà piena soddisfazione e che costituisce il primo passo per dipanare i fili di una tradizione stratificata (e neppure chiaramente).

Uno dei tanti contributi a margine (p. 95) è la correzione di glosse esichiane grazie agli scoli odissiaci (ad es. α 5184 La. con lo schol. BDHNVx β 300).

È quasi superfluo sottolineare l’importanza, in definitiva storico-culturale, di una delle iniziative intraprese dall’A., seppure necessariamente in stato embrionale (pp. 100-103): poter valutare fino a quanto l’esegesi ad autori diversi dipenda dal materiale raccolto e financo dalle categorie escogitate nell’interpretazione di Omero vorrebbe dire da una parte delineare almeno parte dell’impianto originario della trattazione antica dei testi, dall’altra, attraverso le differenze, cercare di capire anche quanto le peculiarità dei diversi autori hanno condotto a novità di metodo esegetiche, rispetto alle griglie applicate all’epica omerica.

Il II capitolo vede ancora, e in maniera più diretta, l’A. impegnato a disegnare la trafila che porta l’esegesi odissiaca dall’antichità alla tradizione medievale. Non più nomi, ma manufatti, consentono all’A. di mostrarci vuoi fenomeni di continuità, vuoi testimonianze di quanto non è riuscito a filtrare dalla tarda antichità. Inoltre l’A. nota meccanismi di selezione che hanno condotto all’attuale entità degli scoli odissiaci (cf. p. 135).

Del III capitolo si apprezzerà, in primo luogo, una competenza tecnica formata, messa al servizio di aperture a orizzonti più vasti. La dimensione storico-culturale del lavoro qui si misura non solo sulla presentazione delle diverse personalità che hanno avuto a che fare con l’esegesi odissiaca (in cui anche gli accenni a letture o sfruttamento ideologico [allegorico-morale] dell’ Odissea contribuiscono allo sfondo storico-culturale che l’A. ha inteso fornire al lavoro). Lo studio della localizzazione e circolazione dei supporti agli scoli odissiaci costituiscono uno dei temi più interessanti e vivi della trattazione: in particolare, la sezione sulla “Terra d’Otranto” è diffusa e importante, anche in relazione al problema dell’entità e del significato della produzione manoscritta italogreca (pp. 203-208). A questo proposito, si deve notare come l’A. sappia mantenere le distanze da pur suggestive sopravalutazioni della produzione italogreca (a cominciare dalla n. 304 a p. 146): cf. la sua prudenza nelle pagine di cui sopra e la sua attenzione al dibattito nelle relative note (come già in n. 424 a p. 192, e in n. 433 a p. 196, e poi alle pp. 243-244). Ma sul presunto copista Nicola di Gallipoli, che l’A. ricava da Arnesano-Sciarra, affiorante alla p. 182 e che riceve diverse menzioni tra le pp. 206-217 e alle pp. 220 e 332 n. 757 come scoliasta di H, si dovrà leggere adesso A. Jacob, “RAL” s. IX 15, 2004, pp. 747-765, dove il Nicola citato nella sottoscrizione del Vind. suppl. gr. 37 viene convincentemente identificato con tutt’altro ruolo che quello di un copista. In margine va detto che l’A. si è accorto che qualcosa non funzionava nella trascrizione da parte di Arnesano-Sciarra della suddetta sottoscrizione metrica e ne fornisce una in parte emendata (n. 467 a p. 207), ma ora va letta nella edizione di Jacob, cit., pp. 748-756.

Tra i contributi in margine, in questo III capitolo, vd. le obiezioni a van Thiel a p. 147 s. n. 309; le precisazioni sulla distinzione delle mani in P a p. 223 n. 506; le correzioni a Colonna (pp. XIII-XIV dell’edizione di Eliodoro) e Mioni per i dodecasillabi alla fine del testo di Eliodoro in D in n. 515 di p. 229; la rettifica a Fowler, a proposito di s, in n. 660 di p. 295.

Nel IV capitolo molte sono le indagini di dettaglio (segnalerei, ad es., le pagine dedicate a Leonzio Pilato e al suo autografo Marc. gr. IX, 29), ma è soprattutto notevole l’idea di radunare e distinguere ogni manoscritto del periodo umanistico attorno alla sfera d’influenza della rispettiva personalità magistrale. L’A. dimostra così ancora una volta di saper mettere le sue competenze e nozioni al servizio di progetti di un certo respiro. Il lettore ha davanti un confronto tra ‘scuole umanistiche’ su di un campo circoscritto ma significativo qual è quello della conservazione e dello sfruttamento della tradizione esegetica odissiaca (ad es., sintesi sulla natura del lavoro di Poliziano a p. 396, su Lascaris p. 404). Importante l’attribuzione a Musuro invece che a Lascaris (p. 481 s.) dei marginalia apposti nell’Inc(unabolo) I. 50 della Biblioteca Vaticana (edizione di Omero del 1488), così come l’identificazione di Arsenio Apostolis quale scriba del Vat. gr. 1321 (p. 486; a questo proposito, la disposizione della materia scelta dall’A. è un po’ strana: a n. 1099, in extremis, è menzionato Ferreri: “ad Arsenio pensa anche Ferreri, La biblioteca, 186-187″, e ciò dopo che si è parlato del Vat. Pal. gr. 316, ma “anche” dovrebbe rimandare al Vat. gr. 1321. Insomma, a nostro parere l’identificazione di Ferreri, poiché di ciò si tratta, seppure proposta dubitanter, andava posta in rilievo con una collocazione meno periferica. In generale, l’A. ci offre in questa sezione più di uno sguardo sul laboratorio omerico, editoriale o meno, di diversi filologi del tardo Umanesimo.

Tra i contributi in margine, in questo IV capitolo, vd. le rettifiche a Pertusi (sugli scoli vergati da Petrarca) in n. 796 a p. 349; la nuova lettura dello schol. DHMaTx a β 65 in n. 797 a p. 350; le obiezioni a Fowler a p. 391 (sulla dipendenza del Corpus Christi College 81); l’aggiunta al repertorio di Treu in n. 946, p. 415.

Le conclusioni sull’esistenza di un archetipo nella parte finale del cap. VI sono condotte con grande prudenza e consapevolezza metodica (in particolare sui processi erratici di costituzione di tale tipo di testi). La individuazione degli errori comuni (p. 552 s., ovviamente solo una selezione) appare convincente (a mio sommesso parere non sono significativi i casi ad η 318 κλίμα, μ 129 e ν 373, ma ciò non inficia nulla). La determinazione della cronologia dell’archetipo in base alla presenza dell’ excerptum da Massimo Confessore e alle ipotesi sulla sua provenienza da un lessico bizantino è degna della massima attenzione.

Diversi gli inediti, dovuti alle letture dirette dell’A. Naturalmente è difficile giudicarne la resa, possibile solo dopo un controllo diretto, ma l’A. ha tutte le caratteristiche che portano a confidare nelle sue trascrizioni. Segnaliamo qualcosa: la lettura παρὰ Νικίᾳ καὶ Πρωτ – invece di quanto stampato da Dindorf ( παρὰ Νικίᾳ τῷ πρώτῳ) in schol. V ψ 218 (p. 61 n. 125); lo schol. O α 10 (p. 76); scholl. Xs τ 205, Ma λ 245 (p. 81 nn. 176 e 177); l’ispezione del PSI X 1173 (p. 127 n. 268); gli scoli ai ff. 10v-11v del Laur. 32, 34 (p. 194); alcuni scoli della prima mano di M (pp. 258-262).

Ovviamente, gran peso nella discussione dei manoscritti ha la valutazione degli errori in prospettiva stemmatica. Il recensore non è nella posizione di poterne giudicare appieno l’efficacia. L’impressione generale è che le operazioni in questo senso compiute dall’A. (ovviamente in termini compendiari) meritino fiducia. In alcuni casi, però, si rimane aperti al dubbio: ad es. a p. 345 r. 38 ci si potrebbe domandare se l’alternativa tra κελλαρίῳ e ταμείῳ non possa essere una semplice scelta lessicale di ‘redazione’ piuttosto che indicare una distinzione; oppure, nella riga successiva, ἐπίταχιν per ἐπίπληχιν è errore che può essere considerato anche poligenetico. Egualmente direi per κατεκλείσθησαν contro κατεκλύσθησαν a p. 375 r. 4.

Ci si permette di apporre qui alcune minime proposte integrative: (p. 24) Per l’interpretazione (glossografica) di un rapsodo, vd. schol. Il. 21. 26b; (p. 57) per un nuovo frammento attribuito ipoteticamente ad Apollonio di Cheride, vd. A. Körte, “APF” 6, 1920, p. 254 ( PRyl. I 24. 7 ss.); (p. 94 n. 207) Su Cirillo ed Esichio vd. anche K. Alpers, in Hesychii Alexandrini Lexicon, III. Rec. et em. P. A. Hansen, Berlin-New York 2005, pp. XVIII-XX; (p. 151 n. 325) la forma γήρει potrebbe doversi all’influenza dei neutri in – ος -/- ες – (cf. forme come οὔδει); (p. 164 n. 361). Sulla Exegesis in Homeri Iliadem vd. anche G. Larizza Calabrò, “BPEC” n. s. 12, 1964, pp. 67-71; p. 133: forse vale la pena di segnalare che il nome di Crisippo può essere introdotto non solo in relazione a questioni di “anima”, ma anche di solecismo: dello stoico sono infatti tramandati due titoli περὶ σολοικισμῶν e περὶ σολοικιζόντων λόγων πρὸς Διονύσιον (vd. SVF II 6. 12-13); p. 239: la glossa a γ 392 si può forse spiegare con una lettura atomistica dell’interprete, che ha inteso κρήδεμνον come “velo” e l’espressione come qualcosa di simile al “sciogliere la cintura”, noto preludio all’atto sessuale; p. 456: l’A. individua il poema tradito dal Par. Suppl. gr. 926 e edito da Nrgaard e Smith (vd. n. 1024) con il titolo di Πόλεμος τῆς Τρωάδος, ciò, presumibilmente, sulla scorta dei due editori, che chiamano il poema “the Πόλεμος τῆς Τρωάδος of Par. Suppl. Gr. 926″ a p. 7, e ancora Πόλεμος τῆς Τρωάδος a p. 14. Non è il titolo fornito dal cod., che suona Διήγησις γεναμένη ἐν Τροίᾳ κτλ. Anche per questo forse sarebbe il caso di trovare un’alternativa , a evitare ogni eventuale confusione con l’epica Πόλεμος τῆς Τρωάδος, parafrasi in greco del Roman de Troie di Benoit de Ste-Maure, e edito nel 1996 da E. M. Jeffreys e M. Papathomopoulos (che a loro volta, a p. LXVI, chiamano Troas il poema del Par. Suppl. Gr. 926).

In una valutazione finale la prima reazione che insorge nel recensore è la profonda soddisfazione per l’annuncio dell’A. di un suo allestimento di una nuova edizione degli scoli all’ Odissea (p. 5). Il lavoro che abbiamo davanti dimostra che difficilmente tale iniziativa potrebbe collocarsi in mani migliori.

In sé il prodotto di Pontani apparterrebbe al ‘genere letterario’ dei Prolegomena ad una edizione critica. Tuttavia la dimensione ‘tecnica’ è coniugata con quella storico-culturale: da qui l’allargamento alla tradizione esegetica antica e un’analisi dei testimoni che coinvolge sia il loro personale destino sia il milieu culturale di riferimento in senso più ampio. La differente natura del materiale (molti nomi con pochi frammenti per l’antichità, molti manufatti anonimi per le epoche seguenti) scompensa il libro nelle sue diverse sezioni. Paradossalmente, il quadro storico-culturale risulta di più immediata evidenza e più ricco (anche se più ipotetico) per la parte antica che per la parte medievale. Dai dati offerti dai cimeli italogreci e orientali stenta a delinearsi un affresco veramente significativo (ciò, ovviamente, non dipende dall’A.). In ogni modo, è eccellente, e speriamo foriera di ulteriori risultati, l’idea di considerare in maniera integrale le testimonianze di studio sull’ Odissea, di valutarne la presenza in un certo luogo, in un determinato tempo e con determinate caratteristiche. Ripetiamo che l’A. è riuscito a mettere al servizio di una ariosa indagine sulla storia degli studi le sue affinate competenze filologiche. Su queste ultime non è il caso di fornire ulteriori elementi. Semplicemente, i risultati di recensio e stemmatici prodotti costituiscono, per alcuni versi in maniera definitiva, il nuovo (e forse primo) punto di riferimento per lo studio della tradizione degli scoli all’ Odissea.

Non più che minime distrazioni sono: pp. 10 e 18: l’inserimento di de Andrés, de Gregorio, di Lello-Finuoli, van Rossum e van Thiel nell’ordine alfabetico rispettivamente sotto le lettere “D” e “V”; p. 10: la data 1790 invece che 1790-1808 per la Bibliotheca Graeca di Fabricius-Harles; a p. 32 n. 27 si parla di Antidoro di Cuma come maestro di Zenodoto: non mi riesce di trovare la fonte di questa notizia; a p. 94, a proposito delle glosse omeriche in Esichio se ne parla come “derivanti in primo luogo dall’autonomo lavoro del lessicografo, e in secondo luogo dalle sue fonti”: Esichio appare come un mero compilatore, è difficile che sia andato oltre le sue fonti; p. 132: il Seleuco che ha discusso delle maree è Seleuco di Babilonia, che apparentemente non è qui distinto dal filologo Seleuco Ὁμηρικός (su cui vd. p. 64): non sono distinti nell’Indice a p. 577; p. 200: dato che si parla delle annotazioni di Senacherim all’ Iliade, a r. 24 forse si dovra intendere “scholia D” per “scholia V”; p. 259: ( ad ε 74) per “Itaca” si dovrà leggere “Ogigia”.

Le tavole non sono di buona qualita.

Ho riscontrato pochi refusi (trascuro alcune mancate spaziature tra i nomi degli autori nelle abbreviazioni bibliografiche; considero refusi nel greco gli errori di ortografia nei testi non trascritti esplicitamente in maniera diplomatica): p. 5 r. 4: l. ” incidens“; p. 10 r. 26: ci vuole “P.” prima di “Eleuteri”; p. 15 rr. 22-23: “Pontani, Per la biografia” va prima di “Pontani, Il proemio“; p. 21: nella tavola sinottica, nello spazio tra XIV e XV secolo, e collocato un codice V e, che probabilmente sta per V 1; p. 30 n. 29 r. 6, p. 31 n. 32, p. 55 n. 106 r. 1: l. “Di Benedetto”; p. 37 r. 8, p. 174 r. 19, p. 281 r. 40: cancellare l’accento a inizio di rigo; p. 44 n. 69 r. 2: l. “da M. van der”; p. 49 r. 30: l. “quasi”; p. 69 r. 13: l. ” ἀντιστροφή ἐστιν ἀντὶ“; p. 98 n. 214 r. 16: con tutta verosimiglianza è da leggere “d.C.”; p. 106 n. 222 r. 1: l. “analfabetismo”; p. 151 n. 325 r. 6: separare τῷ da Ὀδυσσεῖ; p. 162 r. 22: l. “prevalenti”; p. 247 r. 7: l. “possesso”; p. 250 n. 564 r. 4: l. “411-440″; p. 281 r. 39: l. ” Νεί -“; p. 288 r. 17: l. ” ὑπεισέρχονται“; p. 317 r. 5: l. “van Thiel”; p. 392 r. 22: l. “3s.”; p. 346 r. 31: l. “una bell'”; p. 358 n. 817 r. 2: l. 38, 1998,”; p. 394 n. 896 r. 1: l. ” Damilas“; p. 406 r. 4: l. ” διὰ“; r. 28: l. ” ἀμετρήτοις” ?; r. 34: l. ” νοσήσας” ?; p. 412 r. 7: l. ” Ὀδυσσεῖα” ?; r. 27: l. ” ἑβδομηκοστῷ” ?; p. 480 r. 8: l. “conoscessimo”; p. 485 n. 1093 r. 1: l. “187” per “186”; p. 509 n. 1141 rr. 1 e 2: l. “Hangard”; p. 523 r. 25: ” τί μοι” è in corpo troppo grande; p. 595: il rimando giusto per κούκουβαλη / κουκουβάγια è p. 304, non 303.