BMCR 2025.09.48

La lunga notte di Alcinoo. Come e perché è fatta l’Odissea

, La lunga notte di Alcinoo. Come e perché è fatta l’Odissea. Riccò del Golfo: Il Filo di Ariana, 2024. Pp. 154. ISBN 9791254750407.

L’epica greca arcaica, in particolare quella ricondotta dagli antichi alla figura ancestrale di Omero, è ad oggi oggetto delle più svariate analisi (linguistico-formulare, narratologico-letteraria, storico-istituzionale, antropologico-religiosa etc.); scopi alternativamente accademici o più ampiamente divulgativi soggiacciono alle diverse pubblicazioni. Il testo qui preso in esame fa parte di quei tentativi, in generale sempre benemeriti, di rendere fruibili a un pubblico vasto ed eterogeneo, non sempre specialistico, argomenti altrimenti dibattuti nelle grandi aule universitarie o su riviste scientifiche di settore; nel particolare, P. Bertini (d’ora in avanti A.) ha inteso proporre una lettura, molto discorsiva e a tratti narrativa, su “come e perché è fatta l’Odissea”, un’impresa ardua ma non sterile di spunti.

Il testo è articolato in un’introduzione (pp. 7-9), quattordici capitoli, “puntate” nella scelta dell’A. (pp. 11-119), e due conclusioni (pp. 121-150)[1]. Il punto di partenza è chiarito sin da subito: «cosa provoca(va) nell’ascoltatore di “allora” e nel lettore di oggi essere fatta così [scil. l’Odissea] (…); che messaggio semplice ma importante quel come finisce per contenere per l’ascoltatore di “allora” e il lettore di oggi» (p. 11). Per rispondere a queste domande l’A. parte da lontano e procede in maniera asistematica nei vari capitoli, non secondo un reale percorso di analisi progressiva del racconto; piuttosto procede secondo una serie di argomentazioni, impressioni e riferimenti al contemporaneo collegati, non sempre in maniera esplicita ed efficace, tra di loro.

Le prime due puntate (pp. 11-22) sono dedicate ai primi cinque libri del poema, con particolare attenzione a Odisseo come figura della “mancanza”, del non più e del non ancora; nelle puntate dalla terza alla quattordicesima (pp. 23-119), la parte centrale del volume, l’A. si concentra sul racconto di Odisseo alla corte di Alcinoo e sui suoi molteplici temi, con accenni al ritorno del Laerziade a Itaca; nella prima conclusione (pp. 121-145) l’A. si sofferma, tra gli altri punti, su alcuni aspetti della composizione e della geografia dell’Odissea, mentre nella seconda (pp. 147-150) presenta alcune riflessioni sull’importanza della lettura dei testi antichi come base per la formazione culturale delle generazioni presente e futura.

La posizione dell’autore rispetto all’Odissea può essere sintetizzata in alcuni punti:

  1. «[…] l’Odissea apparirebbe (…) l’opera di un poeta molto scafato, molto convinto di quello che fa. Quasi ellenistico nel senso buono del termine. E con le idee chiare sul suo come e sul suo perché» (p. 54)[2];
  2. il poeta opera su un «un ambiente narrativo culturale euroasiatico vasto e permeabile», che conosce alla perfezione, lo sa sfruttare e rielaborare (p. 29)[3];
  3. «Odisseo è rappresentante intelligente di un mondo parzialmente nuovo, dal punto di vista sia affettivo che economico-sociale, ma che sa muoversi dentro un mondo oramai vecchio: quello degli Achei» (p. 37)[4];
  4. la scrittura fa parte del processo di composizione del poema[5].

A queste considerazioni primarie sulla composizione del poema si aggiungono, sin dalla prima puntata, riferimenti all’importanza di leggere l’Odissea in maniera lenta, complessiva e analitica, senza per questo cedere a quella che l’A. spesso lascia intendere come una problematica “Questione omerica”. Le pagine sono pertanto intercalate da riferimenti alla cultura semitica, da etimologie e confronti linguistici in particolare con l’ebraico biblico (e.g. p. 85 s.), da paralleli con la letteratura latina (e.g. Plauto a p. 51; Virgilio a p. 43) e con quelle europee (e.g. Petrarca p. 63; Ariosto e Joyce a p. 91). Completano tale quadro eterogeneo riferimenti sempre espliciti, spesso polemici, alla scuola italiana e alle sue problematiche, ad esempio all’esercizio improduttivo sui testi descrittivi o argomentativi (p. 12), alla rinuncia (forse più apparente che reale) alla lettura lunga e fine a sé stessa (p. 24 s.), a una gerarchia valutativa nei confronti degli studenti dei primi anni di Liceo che rischia, forse a tratti, di risultare pregiudizievole (pp. 27 e 147).

Per formazione e per studi, non concordo con l’idea di Omero come Autore nel senso moderno del termine, con una sua consapevole e ragionata attenzione alla pratica compositiva e all’equilibrio strutturale; né concordo con alcune soluzioni interpretative di singole questioni. Non serve qui elencarle perché si tratta di posizioni teoriche, e quindi ermeneutiche, decisamente polari le une rispetto alle altre, non per questo l’una meno autorevole dell’altra. Ciononostante alcuni punti del testo, in particolare due, meritano di essere evidenziati. Procederò citando l’affermazione dell’A. e ciò che considero importante e meritorio di essa.

Un narratore antico è qualcuno che prende da uno sterminato materiale reale e/o già letterario e lo ricompone nelle quantità, nelle concomitanze scoperte o tagliate, e nei come e nei perché che vuole lui PER (sic) chi ascolta o legge (p. 53).

Tale asserzione, sebbene non condivisibile rispetto a ciò che viene definito “letterario” in un contesto tradizionale quale quello immaginato per l’epica arcaica, evidenzia due punti importanti rispetto all’operato dell’aedo in generale: l’anonimato tradizionale del cantore, unitamente al suo ereditare e presentare materiale tradizionale, non esclude un processo creativo in performance, che avviene secondo le pratiche tipiche di un cantore orale (cf. studi sull’oralità a partire da Parry); e tali modalità si spiegano con l’occasionalità della performance stessa, che spinge l’aedo a raccontare ciò che è pertinente all’uditorio[6].

Il dare per scontato, giustamente, che l’impresa degli Argonauti fosse nella narrazione euroasiatica antica e attestata, ci fa con errore di parallasse vedere il racconto di Apollonio Rodio come corrispondente a ciò che Omero conosceva di tale impresa, il che per certe parti piò avvicinarsi a verità, per altre decisamente no, vista anche la fissa (sic!) degli ellenistici a innovare nella tradizione (p. 109 s.).

Tralasciando l’etichetta cumulativa – e non priva di problemi – della “narrazione euroasiatica antica e attestata”, è interessante notare che spesso noi moderni siamo portati a creare gerarchia tra i testi antichi solo a partire da quelli che sono stati trasmessi o da un’eccessiva e fervida immaginazione su ciò che non possediamo. Una sana cautela invita a guardare contestualmente il testo posseduto e a confrontarlo con altre evidenze documentarie.

Il testo di Bertini è un saggio che implica più competenze simultanee e un retroterra di letture variegato. Molti spunti interessanti restano solo accennati e avrebbero meritato una più attenta disamina. Giustifica a volte tale brevità il tono narrativo del testo.

La lettura tuttavia non è sempre scorrevole, per un periodare a volte complesso – quasi volesse riflettere i passaggi di pensiero impliciti dell’autore –, a volte contenente tratti di conversazione orale. Stupisce la scelta editoriale di non utilizzare il corsivo per i titoli delle opere, di adottare l’alfabeto ebraico con pronuncia o traslitterazione (e.g. p. 58) ma non quello greco (!), di adattare l’esametro omerico in una traduzione italiana centrata nel corpo della pagina (e.g. 58 s.). In conclusione, il testo presenta spunti interessanti (anche se non sempre condivisibili), ma avrebbe meritato una più attenta rielaborazione formale al fine di rendere più godibile la lettura.

 

Notes

[1] Dalla prima alla nona puntata sono presenti dei sottotitoli evocativi del tema scelto per il capitolo. Prima puntata, “Il gioco del come e del perché”; seconda, “Un goffo tentativo”; terza, “Un mondo misterioso quanto normale, con qualche sospetto e suggerimento…”; quarta e quinta “Quale mondo antico conosciamo? In quale sua narrazione crediamo?”; sesta, “Dal narratore al narrato al narrante, mentre il Pensiero nella notte ascolta…”; settima, “Quale mondo antico conosciamo? In quale sua narrazione crediamo?”; ottava, “Con realismo e grande equilibrio (e qualche interessante sorpresa)”; nona, “Un paradiso terrestre patteggiato e immeritato…”.

[2] Cf. p. 20: «Omero è davvero originale, perché si dimostra, sì, esperto e secondo a nessuno in questi ambiti [scil. su come è fatto il mondo e come funziona il lavoro], ma non insiste più di tanto: quel che basta per dimostrare che li conosce (…)»; p. 125: Omero è un poeta arcaico, «ed è giusto etimologicamente parlando, ma la connotazione principalmente cronologica dell’aggettivo è sempre troppo in agguato; a volte si aggiunge un senso di “non ancora perfezionato”: un atteggiamento che sta fra romanticismo e “buon selvaggio” (…)». Tale genere di affermazioni sembra tuttavia in disaccordo con l’invito dell’A. ad evitare di «trovare insospettabili (in realtà banali) analogie tra mondo antico e narratologia o contenuti contemporanei, molti dei quali a loro volta molto stupidi (sic!)» (p. 12).

[3] Cf. p. 28: «Quello a cui sto pensando è un Omero veramente mattacchione, e veramente profondo, che costruisca apposta la sovrapposizione (…) tra marcatori culturali dei semiti e dei greci, così, con uno spunto linguistico segreto che segretamente attua in campo narrativo e culturale».

[4] Cf. p. 102: «Omero, che è la poesia moderna, e Odisseo, che è l’uomo nuovo, sono passati da una conoscenza sterminata di geografia reale (…) e di storie di più culture e popoli, alla definizione del mondo ellenico, che senza rinnegare l’ “acheo” ha bisogno oramai di qualcosa di più che di brigantaggio, potere, o guerre Occidente-Oriente».

[5] Cf. p. 132: «L’Omero dell’Odissea sapeva di altri mondi (…) nella costruzione di storie da affidare a una scrittura oramai perfezionata da secoli (…)».

[6] Cf. e.g. gli studi di J. Svenbro e, più di recente, di Ch.C. Tsagalis.