Mos uetustissimus – Tito Livio e la percezione della clemenza offre una dettagliata analisi, condotta con perizia lessicale, stilistico-letteraria e storica, sull’idea di clemenza all’interno dei libri liviani superstiti. La prima parte del titolo (Mos uetustissmus) contiene in nuce la tesi che Della Calce sviluppa nell’indagine condotta sui trentacinque libri degli Ab urbe condita libri, intesa a dimostrare l’idea della clementia come virtù identitaria connaturata all’agire politico e militare di Roma, innervata nella sua storia ed evolutasi con essa nelle forme imposte dal mutare dei tempi e delle situazioni. Non si può non interrogarsi – è questo il perno tematico della terza e ultima sezione dell’opera (“La clemenza in età augustea: il contributo di Livio con un’apertura sulle Periochae”, pp. 333-358) – sulla consonanza di questa idea con l’ideologia politica del periodo in cui Livio scrive, caratterizzato dal rilancio dei valori romano-italici, recuperati nel progetto augusteo di res publica restituta.
La clementia liviana, tuttavia, non può essere circoscritta ad una mera formula comportamentale, come non ambisce neppure a una veste teorica, anche se alle sue spalle sono ben visibili i caposaldi della tradizione letteraria precedente (Cicerone e Cesare in primis).
La seconda parte del titolo (La percezione della clemenza in Livio) fissa il tratto peculiare e identitario della clementia liviana, che non rappresenta un principio monolitico, bensì un concetto complesso e poliedrico, declinato diversamente nei suoi vari ambiti di applicazione. A questo proposito il volume dimostra efficacemente che la clemenza costituisce una sorta di fil rouge all’interno degli Ab urbe condita libri, che può essere assunto come chiave interpretativa della concezione liviana della storia per l’arco cronologico che va dalle origini di Roma al principato.
L’ampia e documentata introduzione (“La clemenza nel corpus liviano: una nuova prospettiva di ricerca”, pp. 1-33) si apre con un’essenziale ma esaustiva panoramica sulla bibliografia critica dedicata alla nozione di clementia nei libri liviani superstiti, seguita da una dettagliata discussione storica sulla nozione nella letteratura latina di età tardo-repubblicana e primo imperiale, che, come sottolinea Stephen Oakley nella prefazione al volume, presenta in modo chiaro il radicamento della clementia nella riflessione etico-politica di Roma. Sempre in questa parte, Della Calce introduce la categoria interpretativa della “clemenza”, che rappresenta, a mio avviso, la parte più innovativa dello studio. Tale categoria consente di definire il campo semantico della clementia, che viene notevolmente ampliato rispetto alla precedente tradizione critica (p. 15: «Tra clementia e clemenza non sussiste un rapporto bilaterale, bensì la prima deve essere considerata un sottoinsieme della seconda: «clemenza identifica infatti una nozione “a maglie larghe” che, oltre ad essere lessicalizzata dalla radice di clementia (o dal suo aggettivo e avverbio corrispondenti), può essere anche veicolata da una terminologia alternativa, che in determinati contesti è usata con un significato affine», p. 15). Sempre in materia lessicale è interessante l’apertura alle fonti greche, da cui emerge, oltre alla mancanza di un unico corrispettivo greco di clementia, l’eterogeneità e la fluidità della lingua greca nella resa di situazioni in cui è coinvolta la clemenza, in positivo o in negativo. Sono qui fissati, inoltre, i termini e le iuncturae maggiormente ricorrenti negli Ab urbe condita libri per esprimere la richiesta e la concessione (o la mancata concessione) della clemenza, ampliando lo spettro lessicale rispetto al fondamentale studio di Moore[1], in quanto il valore attribuito da Livio a questa virtù non può essere circoscritto alle sole occorrenze di clementia e dei suoi corradicali (33 in totale).
Il corpo principale del volume è costituito dalle prime due sezioni, a loro volta articolate in sottosezioni dedicate a declinazioni diverse e complementari della clemenza. Nella prima sezione (“Dalla famiglia ai casi giudiziari”, pp. 35-112) il focus dell’analisi si concentra sull’Urbs e sull’esercizio della clemenza nella sfera familiare, soprattutto nel rapporto padri-figli, e in quella giudiziaria, dove la clemenza si interseca con la giustizia. Molto più articolata è la seconda sezione (“Parcere e debellare nella sfera militare”, pp. 113-329), suddivisa in tre aree tematiche, dedicate la prima all’esercizio della clemenza all’interno dell’esercito di Roma, la seconda alle diverse categorie di nemici e la terza alla gestione di tale virtù da parte di personaggi non romani. La terza e ultima sezione del volume (“La clemenza in età augustea: il contributo di Livio con un’apertura sulle Periochae”, pp. 330-357) affronta, invece, il delicato passaggio attraverso cui la nozione viene acquisita e opportunamente adattata dall’ideologia augustea.
La suddivisione dei casi di studio all’interno delle varie sezioni è netta, ma non preclusiva di collegamenti fra temi e personaggi, come per i “padri” che svolgono anche il ruolo di “giudici” o di “capi militari” (pp. 34-62). La densità emotiva del concetto di clemenza è esemplificato magistralmente nelle figure paterne della prima decade, per le quali vige una regola non dichiarata ma inviolabile: i padri «intermediari di clemenza per i figli» (p. 59), come Lucio Quinzio Cincinnato (3.11.8-13.9-10) e il padre dell’Orazio sopravvissuto alla sfida con i Curiazi (1.26.5-12), sono dei priuati, mentre i padri esecutori inflessibili di condanne, come Manlio Torquato (4.29.5-6), Lucio Giunio Bruto (2.5.5-8) e Postumio (8.7.17; 22), sono figure pubbliche costrette a sacrificare i sentimenti personali all’interesse dello Stato. Il duplice binario, narrativo e ideologico, su cui Livio mantiene lo studio della clemenza rende ragione tanto della negazione come della mitigazione della pena, cioè una forma compromissoria di clemenza, frequente in contesti di lotte sociali, come si vede nella prima decade (p. 70). Talvolta, la clemenza assume addirittura il volto della remissione e del perdono in ragione di considerazioni che, nell’interpretazione della legge da parte delle autorità, superano la colpa. Due casi altamente esemplari sono nella prima decade quello del già citato Orazio, perdonato dal re Tullo in quanto eroe nazionale, e nella quarta decade il processo agli Scipioni (38.50.4-60.10), un episodio di cui Della Calce sottolinea l’ambiguità per il disaccordo sia delle fonti antiche sia della critica (a p. 75 si cita opportunamente il giudizio di Briscoe: «intractable problems for the commentator»[2]). Nella doppia vicenda giudiziaria di Publio e Lucio Cornelio Scipione è particolarmente significativa la consonanza delle voci di un familiare (Publio Scipione Nasica) e di un’autorità pubblica (il tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco) nella richiesta di clemenza per meriti militari. L’Africano è citato a più riprese nel volume (pp. 227-246), come esempio controverso di experta clementia, una dote radicata nel personaggio sia in termini di mos maiorum sia di calcolo politico e di ricerca di potere personale.
Complessivamente, dall’analisi emerge che il rapporto fra giustizia e clemenza si presenta meno flessibile nella prima decade quando, nelle fasi più remote della storia di Roma, i crimini sembravano meno scusabili e condonabili (ad es. l’adfectatio regni imputata a Marco Manlio Capitolino in 6.17-20; i processi intentati dai tribuni a Coriolano in 2.34.9 e all’ex decemviro Appio Claudio in 3.56-58). L’uso politico della clemenza si impone, invece, a partire dalla terza decade, insieme al forte impatto di tale attitudine nelle vicende interne di Roma. Il caso più emblematico in questo senso è costituito dalla celebre vicenda dei Baccanali (39.8-19), dove l’impunità concessa dal console Postumio a Ispala Fecenia è motivata esclusivamente dalle informazioni ricevute sui riti, per cui la clemenza diventa «una merce di scambio […] in un’ottica tanto di sicurezza pubblica quanto di ammonimento per il futuro» (p. 83).
Se la concessione o la negazione della clemenza nella sfera familiare e giudiziaria, pur nella diversità dei casi, richiamano il principio ciceroniano della concordia ordinum (p. 95), l’idea guida in ambito militare sembra invece il celebre verso virgiliano di Aen. 6.853 parcere subiectis et debellare superbos (p. 111). A questo argomento è dedicata la seconda parte della sezione (“Uno sguardo verso l’esterno: clemenza e mancanza di clemenza dei Romani in guerra”; pp. 133-270), che è giocoforza la più corposa e che analizza i casi più numerosi e notevoli di clemenza, muovendosi con dinamicità e autonomia tra le decadi superstiti. Nei rapporti gerarchici interni all’esercito gli imperia Manliana (8.30-36) costituiscono indubbiamente l’esempio estremo e ineguagliato di severità nella punizione di ordini militari trasgrediti, ma nella concezione liviana di leadership è prassi che alcune colpe dei soldati, come l’insubordinazione, l’indisciplina in battaglia e la codardia, vengano regolarmente punite. In questi casi canonici, la clemenza dell’autorità militare, quando viene esercitata, rappresenta un gesto del tutto gratuito e consiste al massimo nella graduazione dei castighi, mai nel condono della colpa. A questo proposito Della Calce cita i casi di sedizioni militari trattate con mitezza per la buona disposizione del comandante (ad es. il dittatore Valerio Corvo in 7.39.7-17) o per le circostanze (ad es. Tiberio Sempronio Gracco verso i uolones disertori in 24.16.6-7; 9) o per opportunità politica (ad es. il dittatore Papirio Cursore in 8.30-36). Su questo tema è interessante il rilievo che Della Calce dà all’episodio dell’ammutinamento dei soldati di Scipione Africano presso Sucrone (28.24-29). L’analisi, basata su una solida disamina lessicale, mostra come la mancata concessione della clemenza sia giustificata mediante argomenti religiosi (la punizione è qui un piaculum necessario ad espiare una colpa); l’Africano mostra, comunque, di distinguere fra le colpe dei capi della rivolta e quelle dei soldati, presentati come una massa priva di raziocinio, secondo un’immagine tradizionale nella descrizione liviana dei disordini sociali.
La clemenza verso i nemici sconfitti sembra guidata dal principio enunciato da Furio Camillo, secondo cui è insito nel diritto di guerra risparmiare le categorie più deboli, come i dediti e gli inermes (5.27.6-8). Della Calce dimostra, tuttavia, che l’applicazione di questo principio universale conosce moltissime variabili e che l’atteggiamento del vincitore è declinato diversamente in base al suo profilo morale e al contesto storico-politico di riferimento: fondamentale è la differenza fra l’identità di chi si arrende, la modalità in cui ciò avviene e il momento scelto, per cui la casistica dei nemici vinti è ampia e la clemenza nei loro confronti diviene il vero spartiacque nel trattamento riservato a popoli e città (p. 146). Secondo l’autrice, tale nozione si può assumere, anzi, come un vero e proprio strumento critico con cui analizzare la presentazione liviana della storia evenemenziale. Se tutte le decadi presentano chiaramente la tendenza romana a risparmiare dediti e inermes, a partire dalla terza decade con l’espansione delle conquiste militari diviene più presente la prassi di salvare anche captivi e obsides. A ribadire, tuttavia, il carattere non automatico della clemenza intervengono delle eccezioni, fra cui si impongono due casi clamorosi: il massacro indiscriminato degli Aurunci (2.16.9-17.6-7) e quello dei Liguri Statellati (42. 8.1-2), un atto questo che Livio attribuisce esclusivamente alla decisione miope del console Popilio Lenate e che Della Calce riconduce alla componente personalistica della leadership emergente dalla terza decade in poi. Del tutto personalistico e, quindi, arbitrario e privo di principi ispiratori appare l’esercizio della clemenza da parte dei leaders non romani, per i quali essa non è una virtù e neppure un’acquisizione culturale. Nei casi migliori è imitazione del comportamento dei Romani, mentre quasi sempre è frutto di calcolo politico o tradisce una strategia simulatoria (“Uno sguardo oltre i Romani: la concezione della clemenza e i personaggi non romani”; pp. 271-329).
Il volume, costruito con perizia critica, ha innanzitutto il merito di inserirsi con coraggio nel ricco filone degli studi dedicati al sistema etico-valoriale romano, prestando particolare attenzione alle mutazioni verificatesi nel passaggio dalla tarda repubblica al principato. Partendo dall’ampliamento della base lessicale in esame, che va oltre lo studio di clementia e dei suoi corradicali, l’indagine condotta nel volume mette efficacemente a fuoco la complessità della virtù della clemenza nella concezione morale e ideologica che percorre gli Ab urbe condita libri. Essa funge da chiave interpretativa delle relazioni interpersonali, siano esse private come anche politiche e militari, e per il suo carattere intrinsecamente dinamico rappresenta un marcatore delle trasformazioni culturali imposte dai tempi e inseguite dai lettori contemporanei a Livio, a cui, come sottolinea opportunamente la stessa Della Calce, lo storico guarda, attento e insieme perplesso, nella sua prefazione.
Notes
[1] T.J. Moore 1989. Artistry and Ideology. Livy’s Vocabulary of Virtue, Frankfurt: Athenäum 1989, pp.
[2] J. Briscoe 2008. A Commentary on Livy. Books XXXVIII-XL, Oxford: Oxford University Press 2008.