BMCR 2022.11.14

Augusto il fondatore: la rinascita di Roma e il mito romuleo

, Augusto il fondatore: la rinascita di Roma e il mito romuleo. Philippika, 152. Wiesbaden: Harrassowitz Verlag, 2021. Pp. x, 195. ISBN 9783447116510. €49,00.

Il volume di Antonietta Castiello prende le mosse dalla volontà di indagare l’impiego del mito romuleo, ed in particolare dell’immagine di Romolo-fondatore, in epoca augustea, interrogandosi sulla necessità ed il fascino di tale ripresa all’alba del Principato. L’autrice mira, in questo senso, a definire le ragioni per cui l’associazione tra la figura di Romolo e quella di Augusto parve tanto seducente al Princeps e le modalità attraverso cui essa risultò infine accettabile e accettata dalla società coeva.

La disamina risulta impostata sulla base di un approccio eminentemente socio-antropologico, sulla scorta degli studi condotti da Robert Shilling, Attilio Mastrocinque, Peter Wiseman, Augusto Fraschetti e Gianluca De Sanctis,[1] avvalendosi all’occasione di categorie moderne, quali quelle legate alle teorie della memoria di Jan Assmann e Hans Joachim Gehrke.[2]

Nel primo capitolo, l’autrice (d’ora in poi A.) traccia un resoconto dello stato dell’arte rispetto alla ricezione delle figure di Augusto e Romolo, evidenziando la duttilità che caratterizza tanto la “maschera” del primo imperatore di Roma, quanto la narrazione del suo fondatore, e di uno degli elementi costitutivi del mito di fondazione, il pomerium, ponendo a confronto le principali tesi moderne sorte attorno ad una sua identificazione.[3]

Il secondo capitolo indaga, invece, la genesi dell’identità popolare nel mondo antico. Dopo un breve excursus volto a mettere in luce come i Romani contemplassero una pluralità di identità – la maggior parte delle quali nasceva dall’incontro/scontro con l’alter –, l’A. esamina le teorie sulle identità popolari dell’antropologo tedesco Klaus Müller,[4] secondo cui i quattro principali fattori di costruzione identitaria sarebbero la comunanza di genesi, l’adesione ai medesimi usi e costumi, la condivisione di una lingua e il ruolo del territorio. È sull’identità territoriale che l’A. si concentra in particolare, proponendo una dettagliata analisi delle dinamiche della topogenesi: essa ha sempre inizio con due soggetti, un prescelto e un gruppo di gregari, e risulta, in ultima istanza, volta all’appropriazione rituale del luogo, che prevede l’identificazione del punto in cui sarebbe iniziata la costruzione della città e la demarcazione del territorio. Veniva, in tal modo, definita una Heimat, un’endosfera, contrapposta ad un’esosfera, tra cui poteva sussistere comunicazione, ma la trasmissione di corpi e messaggi richiedeva una “traduzione” degli stessi in un linguaggio comprensibile per l’endosfera. È questo il punto in cui l’approccio socio-antropologico risulta più convincente, ponendo efficacemente in dialogo la genesi dell’Urbe e di una sua identità con dinamiche comuni alla gran parte delle società antiche.

Nel terzo capitolo, l’A. affronta il mito di fondazione di Roma, esaminando preliminarmente la figura del fondatore, che, a suo avviso, presenta sempre le medesime caratteristiche: apolide per scelta o costrizione, affronta varie peripezie, giungendo a colonizzare un nuovo spazio, la cui demarcazione perimetrale è suggello del patto stretto con i numi.

Entrando, di seguito, più nel merito delle vicende dei gemelli, l’A. procede prendendo in esame alcuni episodi salienti del mito, anzitutto il celebre agone tra Romolo e Remo per recuperare il bestiame sottratto ad un pastore da alcune schiere di Numitore, presentato dalla grande parte delle fonti come archetipo del rituale dei Lupercalia. L’A. pone, a tal proposito, debita enfasi sull’empietà commessa dopo la vittoria da Remo, che si appropria degli exta e li consuma coi suoi soli seguaci, emergendo, per dirla con Fraschetti, quale luperco prototipico,[5] «proiettato esclusivamente nel mondo agreste, nella sua mancanza di leggi». Viene altresì analizzato l’episodio del rapimento di Remo ad opera di pastori di Numitore, che avviene in assenza di Romolo, impegnato nei propri doveri sacerdotali, e che l’A. interpreta come il momento in cui non solo si manifesta la diversa indole dei due gemelli, ma in cui avviene anche una perdita d’importanza di Remo nella trama narrativa.[6]

L’ultimo episodio su cui l’A. si concentra è la genesi dell’avitum malum:[7] l’analisi delle fonti, particolarmente attenta e critica, procede attraverso una bipartizione tra gli autori che conferiscono malignità al fratricidio compiuto da Romolo e quelli che, viceversa, attribuiscono al gesto la volontà di difendere la città da chi aveva indebitamente superato il sulcus primigenius, divenendo per questo sacer. Al primo gruppo, di cui fanno parte Cicerone ed Orazio, viene associato un sottogruppo – rappresentato da alcuni letterati compresi tra il IV e il IX secolo – per cui Romolo uccise sì Remo perché spinto dalla brama di un potere personale, ma dopo aver governato insieme per un certo periodo. Testimoni della seconda versione sono invece Ennio, Livio e Plutarco, ed anche in questo caso è ravvisabile un sottogruppo, per cui Romolo non è più neppure diretto responsabile dell’omicidio, ma lo è Celere (Diodoro Siculo, Dionigi, Ovidio, ps. Aurelio Vittore).[8]

Una simile analisi, che l’A. conduce con spiccato rigore filologico, permette di far luce sulle complesse stratificazioni cui il mito di fondazione andò incontro: la conclusione è che, se le fonti di tarda età repubblicana risultano profondamente influenzate dai torbidi delle guerre civili e tendono a risaltare la dualità costitutiva nella leggenda dei gemelli e ad accentuare la negatività di Romolo, con l’implicito quanto chiaro intento di denunciare le derive monarchiche di specifici personaggi a loro coevi, per contro nelle fonti d’età augustea si assiste – con sparute eccezioni – ad una riabilitazione della figura di Romolo, che porta, in alcuni casi, addirittura all’eliminazione del fratricidio.

Il quarto capitolo ritorna con maggiore dovizia di particolari sul tema del pomerium, riconoscendo la difficoltà già degli autori antichi nel definire l’esatto tracciato del confine pomeriale – imbarazzo derivante dal fatto che si trattasse di un confine dinamico, più volte ampliato già in età monarchica – e nel risalire all’etimologia del termine. Le due etimologie proposte dalle fonti sono *postmoerium,[9] per cui esso sarebbe la linea sacra situata «al di là delle mura» e quindi interna ad esse, o *promoerium, ad indicare la linea prima della cinta muraria e quindi esterna ad essa. Livio appare la prima voce ad allontanarsi da tale metodo intuitivo, basato sull’etimologia, e a definire il pomerium non come una linea ma piuttosto un locus, una sorta di fascia che procedeva sì parallelamente al percorso murario, ma includendolo e collocandosi da entrambi i suoi lati.[10] In questo senso, il Patavino sarebbe, secondo l’A., il primo ad offrire una chiave di lettura alternativa – utile anche alle moderne ricerche in materia –, cogliendo come il pomerio avesse un significato ed uno scopo indipendenti da quelli della cinta muraria ed indipendente fosse presto divenuto anche il suo andamento rispetto allo spostamento delle mura.

Col quinto capitolo, l’analisi si sposta su Ottaviano/Augusto, nel tentativo di comprendere se e quanto l’associazione tra il futuro Princeps e la figura di Romolo – elaborata, interpretata e reinterpretata come mostrato – fosse stata intenzionale. Per farlo l’A. ripercorre, quale preambolo del capitolo successivo, le vicende del Divi filius, dalla morte di Cesare sino ad Azio, in un excursus che avrebbe forse potuto essere più aderente alla linea d’indagine scelta ed incentrato sulle assonanze ravvisabili tra il percorso di Ottaviano e quello di Romolo. Il ragionamento prosegue nel capitolo seguente, in cui viene tratteggiata più nel dettaglio la strategia augustea di ripresa del mito romuleo: l’assimilazione di Augusto al fondatore di Roma – senza, beninteso, mai assumerne il nome – rendeva evidentemente necessaria l’eliminazione dei tratti più negativi attribuiti a Romolo nell’ultimo secolo repubblicano;[11] non sarebbe, dunque, un caso che, in epoca augustea, l’omicidio di Remo venga sovente ricondotto a Celere. D’altro canto, la figura e ancor più la sorte di Remo fornivano un limpido rimando all’hostis per eccellenza del momento, Antonio, per questo non vennero eliminate, ma ci si premurò di preservare l’intrinseca dualità del mito, limitandosi a scagionare Romolo dalle più compromettenti responsabilità. Fu solo al termine di questo processo d’epurazione della figura del fondatore che Ottaviano si risolse a condividere con lui anche il titolo di pater patriae: Augustus era pronto per presentarsi come un Romulus auctus.

In conclusione, l’approccio metodologico attraverso cui l’A. conduce la propria analisi, interpretando, cioè, il mito di fondazione come strumento di costruzione e integrazione sociopolitica di tutti i gruppi in cui la società si era frazionata dopo le guerre civili, è interessante e perlopiù convincente. La messa a fuoco sull’impiego e sull’accettabilità nel sentire comune, in un momento di profonda crisi identitaria, di un “bacino di simboli”, offre una seducente chiave di lettura a temi e problemi già molto indagati. È talvolta ravvisabile un certo squilibrio tra l’ampio spazio riservato ai capitoli metodologici e di stampo prettamente socio-antropologico e l’analisi, invece, storica della temperie politica e sociale d’inizio Principato e della strategia augustea di ripresa del mito romuleo. Ciò nondimeno, traspare un’accurata discussione delle fonti prese in esame, con una premura di delineare – o perlomeno tentare di delineare – le diverse e commiste tradizioni cui ciascun autore si affiliò, che è operazione essenziale in un’indagine che miri a far luce su stratificazioni narrative tanto complesse, dinamiche e strumentali.

 

Notes

[1] Shilling, R. (1960) Romulus l’élu et Rémus le réprouvé; Mastrocinque, A. (1993) Romolo: la fondazione di Roma tra storia e leggenda; Wiseman, P. (1995) Remus; Fraschetti, A. (2002) Romolo il fondatore; De Sanctis, G. (2015) La logica del confine.

[2] Assmann, J. (1997) La memoria culturale; Gehrke, H.J. (2001) Myth, History and Collective Identity.

[3] Mommsen, T. (1876) Der Begriff des Pomerium; Kent, R. G. (1913) The Etymological Meaning of Pomerium; Antaya, R. (1980) The Etymology of Pomerium; Magdelaine, A. (1990) Le Pomerium archaïque et le mundus; De Sanctis, G. (2007) Solco, muro, pomerio.

[4] Müller, K. (1987) Das magische Universum der Identität.

[5] Fraschetti, A. (2002) Romolo il fondatore, p. 34.

[6] Ad essere presi in esame sono anche il momento della rivelazione di Faustolo ai gemelli delle loro vere origini e quello della restituzione del regno a Numitore: in entrambi i casi, l’A. evidenzia come le fonti tendano a dividersi, tra chi propende per un’epifania parallela e una collaborazione di Remo nel recupero del regno, frutto di un tentativo di “parificazione” dei fratelli, e chi, invece, conferisce a Romolo priorità nella scoperta delle loro origini e precipuo merito nel ripristino del regno, accentuando la disparità tra i due.

[7] Liv. 1, 6, 4.

[8] D.H. 1, 87, 1-3 e Liv. 7, 1-2 riferiscono anche una seconda versione, per cui la morte di Remo sarebbe stata accidentale e avrebbe avuto luogo nel violento litigio sorto tra i sostenitori dei due, all’indomani della presa degli auspici.

[9] Cui s’aggiunge la variante *ponemoerium, testimoniata da Aulo Gellio e da uno scolio a Giovenale.

[10] Liv. 1, 44, 4-5.

[11] Per tali ritratti negativi si vedano in particolare Cic. Off. 3, 41 e Sall. Hist. 1, 55, 5.