La nuova traduzione italiana, con ampia introduzione e note di commento ai Menaechmi plautini è pubblicata nella collana di “Classici greci e latini” dell’editore Rusconi a cura di Maurizio Massimo Bianco, uno studioso che ha nel teatro antico e in particolare in Plauto uno dei principali poli di interesse e specializzazione.
Il saggio introduttivo illustra la commedia nelle sue parti costitutive accompagnando il lettore nel dedalo degli intrecci. Utile il capitolo sulla grande fortuna della pièce che si giova dell’importante saggio di G. Guastella, Menaechmi e Menechini: Plauto ritorna sulla scena, in R. Raffaelli, A. Tontini (a cura di), Lecturae Plautinae Sarsinates. X: Menaechmi, Urbino 2007, pp. 69-150: pur con grande sinteticità si passa in rassegna la serie di commedie messe in scena tra la fine del ‘400 e tutto il ‘500, con qualche accenno ai due secoli successivi. Un capitoletto a parte (il 13) è dedicato alla shakespeariana Comedy of Errors, dove il tema del doppio si arricchisce dell’incrocio fecondo con la commedia “gemella” dell’Amphitruo. Al saggio introduttivo segue una “Scheda di approfondimento” su Gl’Ingannati dell’Accademia degli Intronati di Siena (1531), che è la ristampa di un saggio di Bianco comparso, con diverso titolo, in G. Petrone, M. M. Bianco (a cura di), Immaginari comici, Palermo 2012, pp. 105-121. Gl’Ingannati, opera collettiva degli accademici senesi, rappresenta la contaminazione di vari modelli plautini (attinti direttamente o attraverso intermediari) con le invenzioni già realizzate dalle riprese del Bibbiena e dell’Ariosto. Il saggio è ricco e interessante e Bianco riesce a individuare alcuni paralleli notevoli (in particolare con Casina e Miles) e a mostrare la complessità e varietà dei modelli ben Oltre i “Menaechmi”, come recita il nuovo titolo del saggio.[1]
Venendo al testo e alla traduzione della commedia, l’edizione critica di riferimento è quella di Lindsay (Oxford 19102), da cui il curatore si discosta in vari casi segnalati nel commento (vedi p. 2 n. 1)[2]; il testo di Lindsay mantiene una sua validità per l’equilibrio nelle scelte che lo caratterizza, ma ovviamente l’edizione di Gratwick, notevolmente più problematica e costellata di croci, rappresenta un punto di riferimento costante e imprescindibile per Bianco (cf. e. g. v. 152 e n. 42; vv. 432-4 e n. 114) che si confronta spesso anche con le soluzioni adottate da de Melo.[3] Pur trattandosi di un’edizione divulgativa, le annotazioni, abbondanti per numero, estensione e dottrina, non sono solo di natura puntualmente esegetica, ma rivelano una spiccata propensione alle caratteristiche peculiari della comicità e della performance teatrale nonché ai richiami interni ad altre commedie plautine, sia di tipo strutturale che intertestuale, senza rinunciare a indicazioni essenziali, ma precise, di carattere linguistico. In vari casi Bianco segnala strutture ricorrenti in Plauto e nella tradizione letteraria successiva: un bell’esempio, ai vv. 235-7, è l’enumerazione caotica dei luoghi toccati da Menecmo II e Messenione alla ricerca del fratello su cui si veda la ricca nota 65; oppure la nota 88 sul linguaggio dei cuochi nella commedia plautina. Quasi del tutto assenti sono invece notazioni metriche, anche dove sarebbero necessarie per spiegare le difficoltà del testo, ma questo è coerente con il taglio e la destinazione della collana[4], sebbene in altri volumi della stessa vi sia attenzione anche a questo aspetto.[5] La bibliografia è giudiziosamente selettiva[6], aggiornata e utilizzata proficuamente per porre nuovi e stimolanti problemi emersi negli ultimi decenni.[7] Lo stile del commento è prudente e nei passi in cui la soluzione non è chiara dà conto delle diverse posizioni. Pur nell’ovvia distanza dalla complessità dell’eccellente commento di Gratwick, il lavoro di Bianco offre spunti e prospettive nuove su singoli punti e merita di essere conosciuto da chi voglia leggere i Menaechmi con un apparato esegetico agile, ma di dimensioni più ampie rispetto alle normali edizioni tascabili.
La traduzione di Bianco è concepita come ausilio alla lettura del testo latino e per questo non persegue ambizioni letterarie, ma intende mantenersi costantemente aderente al modello: la resa è in prosa piana e lineare, senza indulgenze a flosculi di sorta, ma molto attenta alla corretta corrispondenza della singola parola e si mostra adatta soprattutto a una fruizione scolastica, sia liceale che universitaria. Il problema della resa è avvertito da Bianco soprattutto nei casi, non infrequenti, in cui è difficile far corrispondere i due sistemi linguistici: il caso più evidente è quello della traduzione del nome del parassita Peniculus su cui la nota 20 è sinteticamente esauriente, confessando tutte le perplessità che hanno riguardato la soluzione adottata, ossia “Spazzoletta”; al di là della scelta in sé, è interessante la ragione che ha portato a questa soluzione: peniculus (che ha a sua volta il diminutivo penicillus, “pennello”) è formalmente diminutivo di penis (coda) e viene scelto per indicare il parassita aduso a ripulire la mensa, perché la coda del bue era usata come strumento per spolverare e nettare vari tipi di superficie. Naturalmente il nome porta con sé un equivoco linguistico ovvio, ma assolutamente intraducibile. Siccome al v. 391 si gioca sul nome che può indicare l’oggetto con cui si puliscono le scarpe (baxeae) e siccome in italiano quell’oggetto si chiama univocamente “spazzola” (scelta già operata da altri traduttori e forse l’unica possibile, pur con evidente perdita di complessità semantica), Bianco opta per “Spazzoletta” per conservare il diminutivo latino, che tuttavia aveva perso la sua connotazione originaria. La forma scelta, per come suona in italiano, rischia di conferire al parassita una sfumatura ipocoristica impropria, sacrificando fra l’altro la dimensione della sua voracità (egli mangia per otto, come ricorda il cuoco ai vv. 222-3).
In qualche altro caso Bianco ha tentato di restituire giochi di parole praticamente intraducibili cercando di “compensare le perdite” (U. Eco); per esempio al v. 610 si traduce il bisticcio palla pallorem incutit con “l’accenno al mantello ti accende la paura”, spostando il focus dell’espressione su elementi accessori con la seria possibilità che il lettore non si accorga del tentativo fatto. Anche il risultato della resa dei vv. 848-9 “Tu mi proibisci di dare qualche pugno alla faccia di costei… per dargliene molti” non riesce a essere chiaro: ma si sa che queste sono le parti in cui il testo di Plauto è più insidioso; oscuro resta il senso della domanda al v. 915 sul colore del vino e il tentativo esegetico di Bianco non mi pare sufficiente a fornire un senso realmente comprensibile.
All’espressione Cerialis cenas del v. 101 (così nel testo, secondo l’edizione di Lindsay mentre nel commento si usa Cerealis come Gratwick e altri) è dedicata la lunga nota 23, in cui si sintetizza il contributo di L. Pasetti, Le cene di Cerere, in M. M. Bianco, A. Casamento (a cura di), Novom aliquid inventum. Scritti sul teatro antico per Gianna Petrone, Palermo 2018, pp. 243-254; secondo la studiosa l’espressione farebbe riferimento non, come normalmente si intende, a cene sontuose, ma al digiuno in onore di Cerere e, mentre l’intenzione del parassita sarebbe quella di evocare abbuffate pantagrueliche, il pubblico assocerebbe piuttosto quell’espressione all’astinenza dal cibo con conseguente effetto comico. Ipotesi lambiccata che avrebbe anche implicazioni sulla datazione della commedia, perché il ieiunium istituito nel 191 a. C. verrebbe a costituire il terminus post quem per la datazione dell’opera; anche se non ci sono attestazioni che Cerere avesse le caratteristiche di Demetra (μεγάλαρτος, μεγαλόμαζος), direi che la sua funzione sia sufficiente a giustificarne la potenza evocativa del nome in associazione al cibo e aggiungerei anche che ad ogni digiuno rituale deve seguire necessariamente un abbondante pasto compensativo: lo stesso del resto si verificava anche durante le Tesmoforie in onore di Demetra, quando si alternavano il digiuno e il sacrificio rituale. Bianco parrebbe dubbioso sull’ipotesi di Pasetti (“l’espressione … suonerebbe dunque in parte ambigua”), ma nell’Introduzione, p. XIII n. 8, ne accetta la datazione bassa conseguente.[8]
Nel complesso dobbiamo essere grati a Bianco per aver messo a disposizione del pubblico italiano una nuova edizione dei Menaechmi con un valido saggio introduttivo, una funzionale traduzione italiana e note di commento che riescono a inquadrare bene le caratteristiche strutturali della pièce all’interno del corpus plautino e nella tradizione del teatro antico.[9]
Notes
[1] Il testo citato de Gl’Ingannati non è quello dell’ultima edizione critica a cura di Marzia Pieri (Pisa 2009), anche se ovviamente ne differisce poco.
[2] Al v. 219 viene accolta la correzione di Gratwick ecquos per eccos e conseguente interrogativa finale. Anche ai vv. 268-9 vengono compiute scelte diverse rispetto al testo base (amator magnus per magnus amator e perciti per perditi) coerenti con le indicazioni di Gratwick; vedi anche nn. 76 e 83 per la diversa attribuzione delle battute.
[3] W. D. C. de Melo, Casina; The casket comedy; Curculio; Epidicus; The two Menaechmuses, Cambridge (Mass.)-London 2011.
[4] Nella Prefazione (pp. V-VI)) la direttrice della collana, Anna Giordano Rampioni, chiarisce che l’obiettivo di questi volumi è rendere accessibile anche a un pubblico vasto e di non specialisti testi classici di particolare rilievo culturale. In quest’ottica un ruolo centrale è attribuito alla traduzione perché essa rappresenta il modo in cui un nuovo autore fa rivivere nella lingua del suo tempo le parole dell’autore antico, con una particolare attenzione a chi, magari, quella lingua non conosce bene o ignora del tutto.
[5] Si veda il recente Euripide, Eracle, saggio introduttivo, nuova traduzione e note a cura di G. Burzacchini, appendice metrica a cura di M. Ercoles, Santarcangelo di Romagna 2021.
[6] L’aver riprodotto il saggio di approfondimento su Gl’Ingannati fa sì che, inevitabilmente, la bibliografia specifica sulla commedia e il teatro cinquecentesco risulti proporzionalmente sbilanciata rispetto a quella plautina, ma non è certamente un grosso problema.
[7] Manca il saggio di Spies 1978 citato alla n. 55 di p. 120 (A. Spies, Militat omnis amans. Ein Beitrag zur Bildersprache der antiken Erotik, Diss. Tübingen 1930; repr. New York 1978).
[8] Sarebbe stato utile un commento al v. 105, sicuramente comico ma per noi oscuro poiché ignoriamo a chi il parassita si riferisca parlando dei suoi cari (Gratwick ad l.). La nota 91 chiarisce bene la metafora della meretrix come nave predatoria, ma sarebbe stato forse necessario dar conto delle perplessità di Fraenkel sulla coerenza dell’immagine in questo punto (cf. Gratwick ad l.) e rimandare al v. 442. L’espressione al v. 395 (haec mulier cantherino ritu astans somniat) oltre a riferirsi alla capacità dei cavalli di sognare, riconosciuta da Plinio (n. 105), è costruita sul dato di realtà che questi dormono in piedi, mentre la scelta di un cavallo umile (cantherius) dipende dalla degradazione comica dell’immagine. Al v. 838 la proposta di Gratwick ille Cercopsricordata alla nota 187 avrebbe avuto bisogno di qualche parola di spiegazione in più, anche perché essa va considerata in relazione all’immagine del Titanum del v. 854 che ne spiega la genesi: vi sarebbe infatti un parallelismo che contrappone le immagini del nano e del gigante a proposito del vecchio ma questo non si può evincere dalle note di commento. Lo stesso vale per la menzione della proposta di Gratwick Cyno<s>pater che si spiega come riferimento all’immagine della cagna, usata precedentemente per la matrona.
[9] Il testo è ben curato da un punto di vista grafico e ci sono pochissimi refusi o imprecisioni: “Menemco” (p. XXXII); “Giova Maria Cecchi” (p. XLVI); “è stata già tosate” (p. LXVI); “Io ti prometto, chi mi sento” (p. LXXI n. 98: “Oh, ti prometto ch’io mi sento”); “Menaccci” (p. LXXXI); l’esponente della nota 67 di p. 29 è in posizione errata; il tibi fuant del v. 171 viene attribuito nella traduzione e nella nota 20 a Peniculus, ma nel testo a Menaechmus (soluzione scelta per es. da Gratwick).