BMCR 2021.06.18

Philodemus: on poems, book 2

, Philodemus: on poems, book 2. Philodemus translation series. Oxford; New York: Oxford University Press, 2020. Pp. 768. ISBN 9780198835080. $155.00.

Nell’àmbito del “Philodemus Translation Project” la presente edizione costituisce il volume I/2 della serie delle opere estetiche di Filodemo, dedicato al II libro dell’opera Περὶ ποιημάτων del Gadarese. La serie cominciò con le edizioni dei libri I (vol. I/1, 2000, 20022) e III e IV (vol. I 3, 2011), curate dallo stesso Janko (d’ora in poi A.) e terminerà con l’edizione del V libro (vol. I/ 4), per le cure di James Porter. Il Philodemus Translation Project comprende anche l’edizione della prima parte del Περὶ εὐσεβείας, curata da D. Obbink (1996). Lo scopo di questa iniziativa editoriale è di divulgare in lingua inglese i testi (rivisti sugli originali) di Filodemo, che molto probabilmente fu il raccoglitore di gran parte della biblioteca della Villa Ercolanese dei Papiri e di renderli fruibili anche presso gli storici della filosofia e della letteratura greca.

Sono più di venti anni che l’Autore studia, con passione, i libri del De poematis di Filodemo, uno dei testi più importanti del filosofo epicureo, sul quale molto si è esercitata la critica.  La presente edizione è un ulteriore, splendido risultato di questo suo impegno. La ricca Introduzione si divide in sei parti. La prima è dedicata alla storia del testo. Innanzitutto l’Autore ricostruisce il rotolo che conteneva il secondo libro dell’opera e che egli ricompone mettendo insieme i resti di 6 papiri: PHerc 994, 1074b, 1081b, 1419c, 1676, 1677a; il volumen originariamente era lungo 16 m e comprendeva 222 colonne, di cui più della metà sono superstiti. Questo è un dato importante, dal momento che, secondo G. Cavallo, la lunghezza massima dei rotoli ercolanesi si aggirava sui 10 metri, misura che solo eccezionalmente poteva essere superata e comunque non di molto.[1]

Le colonne superstiti sono dedicate alla critica di Filodemo alle teorie estetiche di Eracleodoro. Le ultime 3 linee di ciascuna colonna sono annerite, al punto da essere difficilmente leggibili con la luce normale; secondo l’Autore il rotolo deve essere stato tenuto per la maggior parte del tempo tra la sua creazione e il 79 d.C. orizzontalmente sullo scaffale con la sua base «rivolta verso il sole» (p. 4) oppure, ma, meno probabilmente, messo sottosopra in una capsa. Le due spiegazioni non convincono. Non mi risulta che il papiro esposto al sole diventi nero; l’esposizione al sole tutt’al più secca le fibre, ma non le annerisce. Osservo inoltre che quasi certamente i rotoli filodemei dovevano essere custoditi nella biblioteca, il piccolo ambiente contrassegnato dal nr. V nella celebre pianta dell’ingegnere svizzero K. Weber, dove c’erano poca aria e poca luce e certamente non arrivavano i raggi del sole; inoltre nell’ambiente V fu trovata una sola capsa con 18 papiri latini.[2] Ma anche se il rotolo del II libro del De poematis si fosse trovato in uno degli armadi all’interno del tablinum, essendo anche quest’ultimo un locale “interno”, sarebbe stato molto difficile che vi arrivasse direttamente la luce del sole. Ritengo che la colorazione nera delle ultime linee del rotolo sia dovuta al fatto che per qualche circostanza il margine si sporcò e reagendo al contatto con i materiali lavici si annerì.[3]

Successivamente l’Autore ricostruisce, anche sul fondamento di documenti di archivio, la complessa storia dello svolgimento del rotolo, aperto, come si è detto in 6 pezzi, della loro sistemazione e dei disegni che da essi furono tratti; e del lavoro dei così detti interpreti dell’Officina impegnati nella correzione degli apografi e nell’interpretazione del testo. L’Autore riesce a ricostruire il rotolo originario sulla base sostanzialmente sulla base del contenuto e della configurazione dei vari pezzi. Questo capitolo è un importante contributo alla ricostruzione dell’attività sui papiri tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. In particolare per i disegni del PHerc 1081b eseguiti da F. Casanova l’Autore conferma che il lavoro di questo disegnatore, accusato di produrre apografi non genuini, fu svolto «relatively accurately» (p. 40). Questo giudizio positivo contribuisce a rivalutare in qualche misura la figura del disegnatore, anche in considerazione del fatto che il PHerc 1081 b fu aperto e disegnato negli anni 1822-1824, quando già era in vigore il decreto che stabiliva per i disegnatori una seconda paga legata alla quantità di trascrizioni presentate, un decreto che in qualche caso spinse il Casanova a produrre disegni non genuini. Segue nel capitolo successivo un’analitica descrizione dei 4 papiri superstiti e dei disegni sia oxoniensi sia napoletani. Di particolare interesse le due tabelle, dove sono elencate le lettere male interpretate dai disegnatori: ancóra una volta si conferma che fu un male il fatto che i disegnatori non conoscessero il greco. Nel capitolo dedicato alla ricostruzione del rotolo particolarmente pregevole è il paragrafo in cui l’Autore si sofferma analiticamente su kollemata e kolleseis; a suo avviso il rotolo originario del secondo libro De poematis era formato da 99 kollemata, aventi in media una larghezza compresa tra i 15,0 e i 17,1 cm.  Questa larghezza corrisponde ai fogli del tipo di carta che Plinio il Vecchio (NH XIII 79-81) chiama “anfiteatrica”, che nella sua catalogazione viene immediatamente prima della carta “emporetica” utilizzata per avvolgere merci più che per scrivere. L’Autore nota una differenza di larghezza tra il kollema nr. 69 (il kollema più ampio del rotolo: 17,8 cm) e quello immediatamente successivo (il kollema meno ampio: 13,7), concludendo che lo scriba fino a quel momento aveva utilizzato un rotolo di 70 fogli (ἑπτάτομος), al quale aveva aggiunto un altro formato da 30 kollemata: dunque il rotolo del II libro De poematis sarebbe stato allestito con 5 rotoli di 20 fogli ciascuno, formato, quest’ultimo, che, come è noto, rappresentava l’unità di vendita del materiale papiraceo. Non convince l’Autore quando sostiene che la carta di un rotolo assemblato con fogli di misura ridotta era di cattiva qualità, come per esempio, a suo dire, il rotolo contenente il libro IV De poematis, formato da fogli larghi in media 12,4 cm; stessa considerazione egli fa a proposito del libro II dell’opera, delineato in un volumen della scadente carta anfiteatrica. Secondo l’Autre la misura ridotta dei fogli ercolanesi deriva dall’abitudine del fabbricante di dividere in due nel senso della lunghezza il foglio ricavato dal fusto della pianta, circostanza che spiegherebbe la cattiva qualità dei rotoli ercolanesi. La limitata ampiezza dei kollemata non puo’ di per sé essere additata come prova in questo senso. Come prodotto librario i rotoli ercolanesi sono di un livello medio-alto e già questo lascerebbe intendere che il supporto non fosse di cattiva qualità; va inoltre notato che in essi l’ordito della carta è compatto e lineare, inoltre le linee delle kolleseissono sempre perfettamente verticali e non presentano sbavature, segno, entrambe le cose, di una qualità certo non scadente.

Il capitolo successivo è dedicato alle fonti di Filodemo e ai rivali da lui combattuti nel II libro della sua opera: Eracleodoro, Pausimaco e Cratete. Al di là della frammentarietà del testo del libro, l’Autore delinea un profilo dei tre intellettuali, dando spessore alle loro figure fin qui abbastanza evanescenti ed incerte. Del primo, sconosciuto da altre fonti, il Gadarese aveva sintetizzato le teorie e aveva cominciato ad attaccarle alla fine del I libro. Eracleodoro sosteneva che il genere e il contenuto non hanno importanza per l’eccellenza della poesia, dal momento che il piacere della poesia proviene dalla composizione, vale a dire dalla particolarità della elaborazione, e non dal metro. Anche Pausimaco è sconosciuto da altre fonti e anche di lui Filodemo sintetizza le dottrine alla fine del I libro dell’opera; la sua opera attaccata da Filodemo era intitolata probabilmente Περὶ τῶν στοιχείων τῆς λέξεως. Egli era il teorico della eufonia, vale a dire una commistione di suoni armoniosi e duri, nella quale risiederebbe la bellezza della poesia. Cratete, autore di un manuale nel quale era passata in rassegna una serie di critici letterari, costituisce la fonte attraverso la quale Filodemo conosce le idee di Eracleodoro e Pausimaco.

Nel capitolo successivo l’Autore si sofferma su finalità, forma e stile del II libro De poematis, Nei cinque libri del trattato Filodemo intende sia «difendere l’autonomia della poesia, l’integrità e l’importanza del contenuto che vengono trasmesse dal linguaggio piuttosto che dal suo suono» sia affermare «la superiorità della prosa filosofica e scientifica sulla poesia ai fini dell’insegnamento del vero». Nella poesia tanto il contenuto quanto la forma sono necessari, ma il contenuto è più autorevole, dal momento che il suono in sé non piace, mentre il ritmo piace.

La subscriptio alla fine del PHerc 994, che contiene la parte finale del volumen originario, manca: l’agraphon è privo di scrittura. La circostanza induce l’Autore ad ipotizzare che sul margine del rotolo ci fosse stato il sillybos, l’etichetta di papiro o di pelle con le indicazioni relative all’autore e all’opera, che sarebbe andato perduto, oppure, più verosimilmente, che lo scriba che aveva il compito di apporre la subscriptio non lo avesse mai fatto. Le due ipotesi vanno respinte. In nessuno dei papiri ercolanesi è stata mai riscontrata la presenza del sillybos o di una minima traccia di esso; inoltre nei rotoli letterari greci, compresi quelli ercolanesi, c’era sempre il titolo finale, per cui pensare che la sua assenza nel PHerc 994 fu dovuta a una dimenticanza dello scriba è ipotesi molto inverosimile, anche perché sappiamo che i papiri filodemei, una volta delineati, venivano ricontrollati da un diorthotes. La spiegazione più probabile è che il titolo si trovasse su una porzione del rotolo andata perduta nel corso dello svolgimento, porzione di cui l’Autore nella sua ricostruzione del volumen non ha tenuto conto.

Interessanti le considerazioni che l’Autore fa sullo stile di Filodemo, scrittore che evita lo iato, utilizza clausole ritmiche, ha un periodare vivace e denso, che, almeno nei punti in cui il testo non è frammentario, appare comunque chiaro e facilmente intellegibile, fatto di un vocabolario ricchissimo e aggiornato, nel quale si trovano parole non attestate sia nella più antica letteratura sia nei più antichi documenti greci. Tuttavia l’Autore ricorda come l’omissione di verbi, nomi, concetti «cruciali» (come ὁ ποιητής, ἡ σύνθεσις, τὸ διανόημα), che devono essere mentalmente suppliti, renda talvolta la prosa del Gadarese ellittica, in qualche caspo anche oscura e, a mio avviso, disagevole da seguire. Nel giudizio su Filodemo scrittore è perciò opportuno essere equilibrati, evitando eccessivi entusiasmi.

La presentazione del testo del papiro adottata dall’Autore è quella utilizzata nei precedenti volumi del Philodemus Translation Project. Sulla pagina di sinistra è il testo organizzato in colonne che riproducono le colonne del papiro, affiancato da un denso apparato che è insieme critico e paleografico; forse esso poteva essere diviso in due parti, la prima paleografica, dove registrare aspetti paleografici del testo e la configurazione di lettere o residui di lettere, la seconda critica, dove riportare interventi di studiosi precedenti; per alleggerire l’apparato inoltre si poteva forse evitare di utilizzare l’asterisco con il punto sotto per indicare lettere dell’originale modificate dal disegnatore o da più recenti editori; tale segnalazione è giusta; secondo l’Autore «è vitale che interventi sul testo tràdito siano direttamente presentati all’occhio» del lettore, dal momento che la mancata registrazione della cosa ha gettato lo studio dei papiri ercolanesi in un «discredito» dal quale solo recentemente si è ripreso. Ritengo tuttavia poco opportuno l’uso di questo ulteriore segno diacritico: la cosa può essere registrata nell’apparato. I testi papiracei richiedono frequenti segni diacritici, quelli ercolanesi, per la loro particolare condizione, ne richiedono anche di più; tuttavia ritengo preferibile limitarne, per quanto possibile, l’uso. Lascia poi perplessi il fatto che l’Autore metta sullo stesso piano il papiro e la fotografia multispettrale del  papiro stesso; talora infatti nell’apparato egli registra la lezione dell’originale, rilevando che è diversa da quella della foto: la foto non è altro che il prodotto di uno strumento ed è perciò diversa dal disegno, che costituisce una testimonianza importante da cui magari può capitare che non si possa prescindere, perché conserva parti di testo perdutesi sull’originale; ora, se la foto conferma la lezione dell’originale, la circostanza ovviamente non va segnalata; se invece essa è diversa, bisogna partire dal valore che si dà alla foto: se le si dà lo stesso valore del papiro (o magari un valore addirittura maggiore) allora la sua lezione va data come lezione del papiro, diversamente si registra la sola lezione del papiro, tralasciando quello che si vede nella foto; insomma, se si dà valore testimoniale alla foto, non vedo perché non si debba allora registrare, accanto a quello che si legge ad occhio nudo sul papiro, ciò che si legge col microscopio binoculare in dotazione alla Officina dei Papiri Ercolanesi.

Nella pagina di destra è il testo organizzato, questa volta, in forma continua; sappiamo che questa scelta ecdotica fu adottata da Marcello Gigante per la serie da lui fondata e diretta La Scuola di Epicuro; la scelta di riprodurre il testo non in colonne ma come se fosse un qualsiasi testo filosofico antico (per esempio di Platone o di Aristotele)  rispondeva alla legittima esigenza di rendere più immediatamente “leggibili” i testi ercolanesi, liberandoli dal peso della vecchia impostazione che prevedeva il rispetto della colonne originali, il quale a suo dire impediva la loro circolazione nel circuito degli storici della filosofia e della letteratura antica. L’impostazione scelta da Gigante ha certamente contribuito a valorizzare i papiri ercolanesi al di là della ristretta cerchia degli specialisti; tuttavia è innegabile il valore papirologico dell’organizzazione in colonne. Di qui la scelta del Philodemus Translation Project di riportare il testo nelle due forme; si tratta di un compromesso accettabile, ma forse non necessario. Il testo in forma continua è accompagnato dalla traduzione inglese, nella quale l.’Autore inserisce di frequente tra parentesi tonde parole e, talora, anche frasi, per rendere comprensibile lo stile spezzato ed ellittico di Filodemo oppure per integrare concetti perdutisi in lacuna. Lascia perplessi la scelta di registrare tra parentesi tonde, all’interno della traduzione, in corrispondenza di lacune, il numero supposto di parole cadute: possiamo anche orientarci sulla base di annotazioni del tipo “1-2 parole perdute”, “2-3 parole perdute”; disorientano, invece, annotazioni come “14-15 parole perdute”, “circa 56 parole perdute”, “circa 95 parole perdute” e così via; si tratta di calcoli dettati dalla necessità di dare al lettore la nozione  dell’estensione della parte di testo perduto; ma restano, mi pare, lievemente funambolici.

Non sempre convincono le scelte dell’Autore in relazione alle lezioni dei disegni e a quelle dell’originale. Un solo esempio. Alla col. 222, l. 18 (p. 500) egli scrive: ἢ διάφορα, in apparato leggiamo che il δ è riportato dal disegno oxoniense (vale a dire la riproduzione del testo del papiro eseguita agli inizi dell’Ottocento sotto la direzione di John Hayter e da questi portata in Inghilterra insieme agli altri apografi), mentre sul papiro si legge δ̣ oppure ζ̣; nella fotografia (Pl. 12 a) si nota l’angolo inferiore sinistro di una lettera, che può essere δ oppure ζ. Si tratta del tipico caso in cui la lezione del disegno, «riconosciuta attendibile e non contraddetta da qualsiasi altra considerazione», va giudicata (secondo l’indicazione di M. Gigante[4]) lezione del papiro: che senso ha presupporre una parola inesistente come ζ̣ιάφορα? La riproduzione della coronide alla fine della stessa col. 222 è imprecisa; come si può chiaramente vedere dalla ricordata fotografia, sull’originale essa è costituita, nella parte centrale, da una sorta di diplè, al di sopra della quale è una serie di quattro segni a forma di V sovrapposti, mentre al di sotto è la stilizzazione dell’animale acquatico, che troviamo in altri papiri ercolanesi[5]; al di sotto di essa ulteriori ghirigori. Il disegno pubblicato dall’Autore non corrisponde all’originale.

Il volume è arricchito dall’edizione dei frammenti del Περὶ συνθέσεως ποιημάτων di Eracleodoro e del Περὶ τῶν στοιχείων τῆς λέξεως di Pausimaco. Chiudono l’opera una serie di utili indici (Concordanze, Index verborum, Index locorum, General index), che ne facilitano la consultazione. Questa edizione, al di là di qualche scelta non condivisibile, costituisce un’opera fondamentale, un punto di riferimento per gli studi filodemei e più in generale ercolanesi. All’Autore vanno il nostro plauso e la nostra gratitudine.

Notes

[1] G. Cavallo, Libri scritture scribi a Ercolano, Napoli 1983, pp. 14-16.

[2] Sulla capsa cf. M. Capasso, Custodia e lettura dei test nella Villa Ercolanese dei Papiri: alcune considerazioni, Cronache Ercolanesi 50 (2020), p. 14.

[3] Sulla sistemazione dei rotoli nel locale V cf. Capasso, Custodia e lettura dei testi cit., pp. 5-14.

[4] M. Gigante, Ricerche filodemee, Napoli 19832, p. 115.

[5] Cf. M. Capasso, Manuale di Papirologia Ercolanese, Lecce 1991, figg. LXVIII-LXXII