BMCR 2020.06.35

Il corpo del dialogo: una teoria della comunicazione a partire dal Protagora di Platone e dal Corpus Hippocraticum

, Il corpo del dialogo: una teoria della comunicazione a partire dal Protagora di Platone e dal Corpus Hippocraticum. Philosophike skepsis, 5. Napoli: Paolo Loffredo Editore, 2019. 366 p. ISBN 9788899306861. €28,60 (pb).

In questo libro difficile, ricco di informazioni e di idee stimolanti, Silvio Marino si propone di analizzare il Protagora di Platone, assumendo le dottrine mediche e fisiologiche del corpus hippocraticum come una lente ermeneutica che possa gettare una nuova luce sulla concezione platonica della pratica dialogica. Non mancano studi che hanno indagato il rapporto tra Platone e la medicina del suo tempo. Alle pagine 12-13 apprendiamo che l’operazione che desidera compiere Marino è diversa. Egli parte con l’osservare che i campi disciplinari non erano ben distinti all’epoca di Platone, quando il senso delle “tecniche” andava definendosi. Marino desidera però

“proporre una lettura congiunta dei problemi e delle soluzioni propri della riflessione medica di fine V-metà IV secolo a.C. e del pensiero platonico che di questa riflessione si nutrì” (p. 12).

Marino ha inteso

“leggere gli eventuali ambiti comuni che due pratiche di sapere coeve potevano avere, tenendo conto anche dei due filoni di ricerca di questi ambiti, filoni che si intersecano, il più delle volte, per portare la medicina dalla parte della filosofia e viceversa, senza porsi il problema delle intersezioni e delle interazioni che queste due “discipline nascenti” potevano avere nella considerazione dei pensatori” (p. 13).

Ho citato questi brani per intero perché mi paiono la chiave per comprendere la prospettiva ermeneutica di Marino, che si presenta come il continuo passaggio da un filone all’altro. A me pare che per parlare di “filoni che si intersecano” dobbiamo preliminarmente distinguerli concettualmente. Se la distinzione disciplinare è impossibile, non si vede cosa abbia di specifico l’operazione che consiste nell’accostare il testo di Platone alle opere mediche dell’epoca. Non si sarebbe ottenuto lo stesso risultato – quale che esso sia – accostando il dialogo di Platone a testi filosofici coevi, come si è tante volte fatto, posto che l’arte medica è indistinguibile dalla filosofia? Il prosieguo del discorso di Marino mi fa sorgere altri dubbi. Se non possiamo pronunciarci sul problema delle intersezioni e delle interazioni, ossia su quella che si soleva chiamare Quellenforschung, l’operazione che stiamo compiendo giova comunque alla comprensione filosofica del Protagora? Si è tentati di rispondere di sì, anche se Marino, forse per reticenza, non si pronuncia esplicitamente su questo punto, benché molte intuizioni filosofiche siano disseminate in quest’opera molto ricca.

Il libro si divide in tre capitoli e ripercorre in sostanza i temi del Protagora di Platone, che sono fatti interagire con le discussioni mediche, per mostrare che la teoria della comunicazione esposta dal filosofo ateniese condivide con la medicina antica alcuni punti di partenza, quali la plasticità dell’essere umano, la sua modificabilità grazie all’azione “tecnica” di un agente esterno (il medico/il filosofo) e l’idea che la salute (dell’anima o del corpo) consista nell’equilibrio di tutte le capacità. Il volume non è quindi un commento al Protagora, ma piuttosto una monografia che intende delineare i punti di contatto della concezione platonica della comunicazione con il pensiero medico. La monografia, però, segue, nelle tematiche affrontate, l’ordine di presentazione del Protagora, di cui offre quindi una preziosa lettura “che “attacca ai lati” Platone” (p. 13).

Il primo capitolo (“Dialogo medico e dialogo filosofico”, pp. 17-143) si presenta come una monografia in sé completa. Marino sottolinea l’analogia tra il medico che pone domande al paziente per diagnosticare il male e il filosofo che interroga il proprio interlocutore. Medicina e filosofia sono entrambi saperi “tecnici” (cf. pp. 58-59).[1]

L’analogia tra medicina e dialogo filosofico si impone anche perché

“il problema che gli antichi tentarono di risolvere, riuscendovi, era appunto quello di modificare l’alimentazione che generava dolori, malattie e morte, per stabilire il regime migliore” (p. 67).

Anche la filosofia nasce per rispondere alle medesime esigenze. Come medico e malato, anche il filosofo ed il suo “paziente” intendono pervenire alla ὁμολογία “per ritrovare la verità e per operare la giusta cura” (p. 125). Sulla base di Phaedr. 270 c1-e5, Marino osserva che secondo Platone la natura dell’uomo è una totalità di parti fra loro ordinate, un ὅλον, esattamente come il corpo è un ὅλον che il medico deve conoscere prima di proporre una cura (cf. pp. 126-127). Sulla base di innumerevoli passi tratti dal corpus hippocraticum, Marino dimostra che questo approccio olistico della medicina antica prestava una grande attenzione ai cibi e alle loro proprietà. Infatti la forza (ῥώμη) in cui consiste l’esser sani si ottiene grazie ad una alimentazione appropriata che doni equilibrio alle proprietà del corpo. Un cattivo equilibrio ed una cattiva alimentazione possono perciò danneggiare la salute, come gli antichi medici già ben sapevano. Nella ricostruzione di Marino, queste considerazioni illuminano un passo (Prot. 313c4-314b4, cf. p. 139) in cui Socrate osserva che i sofisti sono venditori di cibi per l’anima ed i loro acquirenti ignorano se tali vivande siano nocive o salutari. Marino osserva che

“il medico dell’anima si trova, in tal modo, proprio come il medico che si occupa de corpi, al limite tra esterno e interno, una sorta di controllore della dinamica delle proprietà (δυνάμεις) che provengono dall’esterno e che entrano a far parte della complessione psichica di un determinato uomo” (p. 140).

In conclusione, Marino coglie una “stretta vicinanza” (p. 143) tra la medicina dietetica e quanto Platone va dicendo nel passo summenzionato.[2]

Nel secondo capitolo (“Un gioco a tre. Medicina, sofistica, διαλέγεσθαι”, pp. 145-234), Marino analizza un brano del Protagora (316d3-317b6, pp. 146-147), nel quale il celebre sofista dona la propria definizione della “tecnica sofistica”. Protagora sottolinea l’antichità di questa tecnica e i diversi nomi sotto i quali gli antichi l’hanno celata, aggiungendo che egli preferisce proclamare apertamente di essere un sofista, dato che ritiene che la tecnica aiuti gli uomini a divenire migliori. Marino sottolinea l’assertività della dichiarazione di Protagora:

“questa forte asserzione – “io dico che” – può essere considerata un richiamo ai trattati della Collezione ippocratica, in cui gli autori a volte, più che proporre, pongono con forza le loro idee” (p. 147).[3]

Nel prosieguo del capitolo, Marino intende sostanziare questa sua affermazione, spiegando che queste tre “tecniche” in statu nascenti, ossia la medicina, la sofistica e il dialogo o διαλέγεσθαι, sono analoghe perché tutte presuppongono una certa “plasticità” dell’uomo.[4] Queste tre “tecniche”, infatti, possono trasformare l’uomo – il che presuppone, secondo Marino, una antropologia che pure presenti analogie con le “tecniche” isomorfe summenzionate. Mi chiedo tuttavia se l’accostamento tra Platone e i medici antichi, che condividerebbero questa antropologia della “plasticità”, sia particolarmente utile ad illustrare il pensiero di Platone (o dei medici antichi). A questo livello di genericità, senza specificare in cosa consista dal punto di vista metafisico o fisico il mutamento di cui medicina o sofistica sono responsabili, Platone e i medici antichi non condividono forse le idee che pressoché tutti gli esseri umani hanno circa se stessi?

Nel terzo capitolo (“Fisiologia e meccanica articolatoria del dialogo”, pp. 235-297) Marino propone degli accostamenti molto suggestivi tra le occorrenze di termini come διαλέγεσθαι o ὁμολογία nei trattati medici e la riflessione esplicita di Platone sulla funzione del dialogo. Nella ricostruzione di Marino, l’obiettivo del dialogare è la “chiarezza”, che non può essere raggiunta dal ragionamento solipsistico. Il dialogo ha anche una funzione politica.

“il dialogo diviene il luogo di uno scambio non soltanto dialettico, nel senso di confronto-scontro tra posizioni teoriche differenti, ma anche, e dalla nostra prospettiva soprattutto, il luogo della modificazione psichica. Sia nella concezione del personaggio Protagora che Platone disegna sia in quella di Socrate, il dialogo è il luogo della μεταβολή, del cambiamento di disposizione psichica (ἕξις) che reindirizza non soltanto il singolo individuo, ma anche la città nel suo complesso” (p. 235).

Marino infatti osserva che gli accostamenti tra la medicina dietetica e Platone non valgono soltanto limitatamente al Protagora, ma potrebbero essere condotti anche in riferimento ai dialoghi di argomento politico (cf. p. 240). Dopo aver spiegato la difficoltà di un discorso complessivo sull’analogia della salute in campo politico, Marino affronta il tema della pratica dialogica. Particolarmente felice mi pare l’osservazione relativa all’ambiguità del termine κατὰ τὴν ὁδόν (p. 243), ossia “per la strada”/“in accordo al nostro metodo” (cf. Prot. 314 c3-7, citato a p. 243, n. 15). Fedele alla pratica del confronto costante con i testi di medicina, Marino rileva che

“[i]l metodo corretto della medicina è uno solo; chi procede lungo un’altra via è semplicemente fuori strada e, cosa più importante, inganna se stesso innanzitutto prima che gli altri” (p. 244).

L’obiettivo del dialogo medico/paziente, come pure del dialogo filosofico, risulta quindi essere l’accordo (ὁμολογία): punto di partenza imprescindibile per la cura medica e punto di arrivo del διαλέγεσθαι (cf. p. 246). Si inserisce a questo punto l’accostamento con una interpretazione della dialettica platonica, ispirata soprattutto ad alcuni lavori di Casertano (cf. p. 254, n. 42), secondo la quale il compito di chi dialoga consiste sì nell’esporre ciò che a lui sembra essere la verità, ma rimanendo pronto a rimettere in discussione le proprie tesi. Marino distingue con cura il discorso eristico e sofistico, che punta alla vittoria apparente nel dibattito, dalla dialettica, che invece mira alla ὁμολογία, interpretata come cambiamento psicologico nell’animo dei dialoganti (cf. soprattutto pp. 255-257). Il dialogo è perciò “più dialettico” (secondo l’indicazione di Men. 75 c-d) quando si adatta alle capacità degli interlocutori: Marino spiega ad esempio la preferenza per i discorsi brevi proprio in ragione della necessità di avvicinare le capacità degli interlocutori del dialogo (cf. p. 258).

Queste analisi di Marino sono molto preziose per la comprensione della dialettica di Platone, tema ancor oggi al centro della riflessione critica. Il libro si inserisce infatti nel contesto di una rinnovata attenzione al tema del dialogo nel pensiero antico e, più specificamente, nel pensiero di Platone.

Il volume si distingue per la cura tipografica (non ho individuato refusi). È impreziosito da indici dei nomi e dei passi citati, che ne rendono agevole l’utilizzo, e da una ricca bibliografia, molto utile per quanti provengano da uno solo dei due ambiti di studi nei quali la monografia si inserisce, ossia gli studi su Platone e quelli sulla medicina antica. Questo è il quinto volume della nuova collana φιλοσοφικὴ σκέψις, diretta da Giovanni Casertano e Lidia Palumbo e pubblicata dell’editore Paolo Loffredo, in continuazione ideale con la gloriosa serie σκέψις di Loffredo editore. Con questo bel libro, si conferma la qualità di una collana che gli studiosi del pensiero antico hanno imparato a conoscere ed apprezzare.

Note

[1] Marino traduce il termine greco τέχνη con l’italiano “tecnica”. Talvolta però, quando cita traduzioni di autori antichi fatte da altri, lascia la traduzione “arte” (cf. p. 58, p. 90, p. 140).

[2] Come si è detto, il metodo di Marino consiste nell’accostare brani di Platone a brani tratti dal corpus hippocraticum.

[3] Ammetto di non trovare particolarmente convincente questo accostamento. Non nego che il discorso di Protagora sia una forte proclamazione di una idea ben radicata nella mente del sofista – un punto sul quale Marino, sulla scorta di uno studio di Aldo Brancacci (citato alla p. 147, n. 6 e n. 7), richiama giustamente la nostra attenzione. Ma l’osservazione secondo la quale anche gli autori dei testi di medicina sono assertivi non basta a giustificare il presunto parallelo. O se il parallelo esiste, sfugge la sua utilità ermeneutica. Non sono forse saldi nelle loro opinioni anche altri autori antichi?

[4] Marino non dice che anche il διαλέγεσθαι è al suo albore, ma la sua tesi secondo cui le “tecniche” all’epoca di Platone andavano appunto differenziandosi implica che anche il διαλέγεσθαι, ossia l’arte del dialogo (sarei tentato di dire: la dialettica),  non era che abbozzato. Questa tesi implicita non può non suscitare controversia, dato che l’arte del dialogo appare assai sviluppata nei dialoghi di Platone.