BMCR 2020.06.33

I precetti della dea: non essere e contraddizione in Parmenide di Elea

, I precetti della dea: non essere e contraddizione in Parmenide di Elea. Bologna: Diogene, 2017. 253 p.. ISBN 9788893630863. €22,00 (pb).

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L’approccio storiografico e filosofico di questo volume, di cui esiste una successiva versione portoghese[1], è estremamente interessante: il punto di partenza è l’idea che la dimensione del non essere e della contraddizione possano essere sviluppate sia all’interno della logica classica, sia all’interno delle logiche non-classiche. Si ha subito la sensazione che la prospettiva della logica classica non sia quella prediletta da Galgano, sin da una prima lettura cursoria del suo testo: si ha l’impressione che egli possa riconoscere una razionalità logica in testi platonici come il Parmenide e il Sofista, piuttosto che squalificarli come aporetici e inconcludenti, anche se non è pienamente simpatetico con essi. Ma non è neppure quella delle logiche non-classiche, un approccio che ha prodotto risultati storiografici assai apprezzabili in una raccolta come quella di John M. Martin, Themes in Neoplatonic and Aristotelian Logic. Order, Negation and Abstraction, una raccolta di testi apparsi precedentemente apparsa presso Ashgate nel 2004.  Uno di questi testi mi appare particolarmente significativo per analizzare il legame tra discorso logico e gnoseologico, nel divario tra neoplatonismo ed aristotelismo, e ne dò quindi la sede della prima apparizione.[2] Voglio però citare direttamente dalla raccolta in volume un’affermazione che ci permette di passare ad enucleare la prospettiva di Galgano: dice Martin,

«I hope I have been able to show how Proclus is of interest to logic. It is difficult to overcome the temptation to dismiss Neoplatonic thought as mystical and therefore irrelevant to analytic philosophy, especially logic. Plotinus and his followers, including Proclus, do at some level espouse mysticism. But there is much more as well.»[3]

Confesso che questa prospettiva di Martin mi attrae particolarmente, e per certi versi mi sarei aspettato di ritrovarne tracce in Galgano, che mette in pratica una diversa prospettiva, che non è genericamente gnoseologica, bensì di psicologia cognitiva.  Sullo sfondo si delinea una dimensione spirituale, se non vogliamo dire mistica: i precetti della dea evocati nel titolo hanno certamente una funzione gnoseologica, tuttavia il testo ne sottolinea costantemente la funzione di insegnamento e direzione di colui che a lei si rivolge, una dimensione che viene dettagliata e analizzata nei termini della psicologia cognitiva, con un indubbio afflato di insegnamento spirituale. Nei termini del discorso storiografico di Martin, in Parmenide secondo Galgano l’aphairesis è una dimensione che resta sullo sfondo, dato che non funziona nei termini che occuperà nel discorso aristotelico: non è opportuno però inquadrarla come negazione in termini puramente logico-formali, quanto invece è fecondo inquadrarla in termini di insegnamento spirituale, ed in questa prospettiva è del tutto comprensibile che nel poema parmenideo, che Galgano traduce e parafrasa per lunghi brani, non troviamo una tematizzazione analitica dell’astrazione. Troviamo invece uno schema di funzionamento della mente umana: anche i partigiani contemporanei della logica paraconsistente, quella che ammette la non-validità universale del principio di contraddizione, fanno riferimento al funzionamento della mente umana, alla compresenza di stati mentali con contenuti contraddittori, per giustificare il proprio sforzo analitico di costruzione di una logica alternativa a quella classica.[4] Galgano evoca le recenti innovazioni nelle scienze fisiche e nelle scienze logiche per giustificare lo studio del non-essere in quanto distinto dall’essere[5]; ma non sono questi i percorsi di Parmenide. Almeno, non così Parmenide secondo Galgano: la sua intelligenza logica non si concretizza nella costruzione di un sistema formale, si concretizza invece in un cammino dell’essere umano che segue i precetti della dea. Insomma, questi precetti non sono una metafora poetica, sono invece una forma filosofica, in cui la filosofia pratica impone la sua presenza tra gnoseologico e logico, insomma in una dimensione di psicologia cognitiva. Come giustamente sottolinea Thomas R. Robinson nella sua Prefazione al volume (p. 10), Galgano non ritiene prioritaria la tassografia linguistica dell’essere, semmai essa è ausiliaria dell’elemento principale, ossia la sua natura esistenziale. sullo sfondo, la critica vero un’intera stagione della metafisica, non a caso separata da elementi di psicologia cognitiva: Galgano individua il debutto di questa stagione in sant’Agostino, emblema della teologia cristiana, che a suo dire ipostatizza il non-essere («progressivo processo di ipostasi della nozione di non essere», p. 18). Questo equivale a rimuovere il non-essere dalle preoccupazioni della metafisica latina, prima, moderna e contemporanea poi. Insomma, bisogna ritornare a Parmenide se si vuole cogliere la dimensione del non-essere in quella che per Galgano è stata una dimensione costantemente travisata, e colta da autori come Hegel e Popper, mossi da intenti puramente teoretici, tanto da essere considerati come interpreti arbitrari da parte della comunità accademica degli storici della filosofia. Galgano vede in Parmenide la divergenza radicale di due istanze cosmologiche – archai – ossia l’essere e il non-essere, e l’istanza di chiarirle adeguatamente. Sebbene lentamente e costantemente travisato, Parmenide è suscettibile di una lettura psicologica che, se è diversa da quella che procede da Platone ad Agostino per poi imporsi nella filosofia moderna, non è in contrato concettuale con quella che Galgano chiama l’ipostasi del non-essere.[6]

In un primo momento Galgano, nel cap. 2, indaga il lessico psicologico di Parmenide, che gli permette di analizzare il comportamento della mente umana.  Egli scopre così una struttura del pensiero – la contraddittorietà del non essere – che si associa a una struttura del pensare – impossibilità di pensare il non essere: mentre per il nostro autore il pensare rinvia al funzionamento del cervello – “fisiologico”, dice –, il pensiero cattura il processo cognitivo completo, con il soggetto che pensa e l’oggetto che è pensato (p. 33). L’analisi testuale verte quindi sui frammenti 1, 2, 6, 7, mentre per analizzare il pensiero verranno in esame i frammenti 8, 4, 16 (in genere viene seguita la numerazione dei frammenti presocratici Diels-Kranz, 1951, come l’autore esplicita a p. 37): si trovi persuasiva o meno la sua analisi, non si può negare lo sforzo acuto e dettagliato di Galgano di radicarsi nel testo e nella sintassi del poema parmenideo. Non vuole darci un’interpretazione globale del poema, e proprio per questo evita i frammenti in cui il rischio di sovrainterpretazione è strutturale e inevitabile: Galgano vuole offrirci una revisione della lettura standard del non-essere in Parmenide. Mi sembra opportuno sottolinearne una particolarità: Galgano non si limita a produrre un’interpretazione nel metalinguaggio dell’interprete che dissipi delle oscurità e delle incongruenze nel linguaggio oggetto esaminato, secondo il principio di misericordia interpretativa di Quine secondo il quale se vi sono più modi di interpretare un testo, bisogna scegliere quell’interpretazione che esonera quel testo nella sua relazione con altri testi del medesimo autore da contraddizioni, assurdità, aporie e altri difetti semantici. Non si tratta di risolvere i problemi di un testo al posto del suo autore, si tratta di non attribuirgliene scegliendo l’interpretazione che più pregiudica il nostro giudizio sulla natura infelice del testo. Galgano procede in questa direzione, ma va oltre: vuole radicare nel testo stesso di Parmenide la migliore soluzione, e ritrova la migliore interpretazione attraverso una diversa resa in lingua italiana del testo del poema. Insomma, lasciando cadere il supposto carattere metaforico del testo, si accede alla sua versa struttura sintattica che è portatrice del significato genuino del testo. Galgano non si limita ad applicare la misericordia interpretativa, egli vuole guidarci alla dimensione arcana e di filosofia perenne del poema parmenideo. Prendiamo un solo esempio: a p. 40, riporta la traduzione italiana del fr. 1, 28-30: «bisogna che tu tutto apprenda: e il solido cuore della verità ben rotonda e le opinioni dei mortali, in cui non c’è una vera certezza». Dopo una ricognizione delle letture esistenti, sviluppa una lunga analisi psicologica e arriva a p. 55 a questa traduzione: «bisogna che tu tutto apprenda sia della verità ben connessa la salda mente sia dei mortali le opinioni, in cui non è certezza verace». Anche qui mi limito ad osservare che da un punto di vista analitico sarebbe più corretto lasciare il testo ai suoi intrecci sintattici e collocare nel metalinguaggio dell’interprete tutte le osservazioni dirette a dipanare la matassa semantica: d’altro canto, Galgano ha perfettamente ragione nel ricordarci che una traduzione che non sia espressione del metalinguaggio dell’interprete paga la sua fedeltà (sintattica) alla lingua originale con il travisamento nella lingua di arrivo. Se siamo mossi da questa istanza, l’operazione di Galgano può essere contestata come non persuasiva, ma ci appare del tutto legittima, specie se l’intento è proporre non già la percezione dei contemporanei a Parmenide, quanto l’utilità filosofica del suo testo per noi esseri umani del XXI secolo.  In ogni caso, l’accumulo di osservazioni lessicali e semantiche di Galgano è di estrema utilità per chiunque voglia giostrare con i classici della filosofia greca non già per il loro valore letterario, bensì per il loro vigore filosofico: un contributo alla storia del pensiero greco, e della filosofia in particolare. Galgano non vuole approdare ad osservazioni meramente linguistiche, che intessono il tradimento di Parmenide, vuole ricondurre il principio di contraddizione all’impossibilità concreta di dire il non-essere (pp. 124-125); non a caso a p. 151 cita un passaggio dalle Upanishad rispetto al quale nota la sorprendente somiglianza con la testualità parmenidea nel fr. 8. Essere e nulla non sono opposti in Parmenide (p. 199): Parmenide descrive la contraddizione, ossia come possibilità sintattica, ma la esclude dalle possibilità semantiche, foss’anche quella di dire qualcosa che è sempre falso. La mente umana non può praticare la via del non-essere (p. 200): cade in una fatale confusione quando mischia essere e non-essere, quindi uno strumento cognitivo che permetta di distinguerli è la sua salvaguardia più essenziale (p. 211). Il non-essere si definisce insomma indipendentemente dall’essere, così in fr. 2, 3-4, opportunamente letto: l’esito è quello di un principio descrittivo della contraddizione, e di altri due principi che la vietano, non perché la mente umana la possa praticare, bensì come salvaguardia contro la confusione che nella mente si può annidare. Questi due principi che ci permettono di non confondere l’essere, che è, con il non essere, che non è, sono l’uno logico, l’altro ontologico.

Un contributo, quello di Galgano, che può apparire ardito, e che è certo stimolante come l’analisi filosofica è chiamata ad essere.

[1] Nicola S. Galgano, Parmênides: o não ser como contradição, São Paulo 2019.

[2] John M. Martin, Existence, Negation, and Abstraction in the Neoplatonic Hierarchy, in «History and Philosophy of Logic», 16 (1995), pp. 169-196.

[3] John M. Martin, Themes in Neoplatonic and Aristotelian Logic. Order, Negation and Abstraction, Aldershot 2004, p. 77.

[4] Galgano è consapevole di questo nesso, come esplicita in una nota a p. 176, ma mi pare che non lo consideri posto fecondamente nell’approccio logico-formale. Anzi, ne prende le distanze in passaggi come quello di p. 207 in cui critica altri interpreti contemporanei.

[5] «Da una parte, la fisica attuale pretende che le coppie di particelle subatomiche abbiano la loro origine nel nulla e, da un’altra parte, il non essere diventa meno assoluto in logiche paraconsistenti», p. 12. Affermazioni di questo tipo, anche da parte di chi le potrebbe senz’altro condividere, richiederebbero una maggiore attenzione esplicativa verso il lettore. Credo di capire che il non essere diventa meno assoluto in logiche paraconsistenti come un diverso ruolo della negazione rispetto alla logica classica, peraltro un tema che percorre il Sofista platonico, ma questa non è l’opinione di Galgano (p. 18). Galgano non lo esplicita, ma questa non è una sua negligenza, è il chiaro indice che il suo interesse principale non è un’analisi logico-formale del testo parmenideo.

[6] Confesso che mi riesce difficile immaginare che sant’Agostino renda ipostasi il non-essere, per esempio nel suo commento alla Genesi, dove si fonda l’antropologia per la quale il non-essere è solo mancanza dell’essere. Mi pare chiaro che Galgano usi “ipostasi” in un senso diverso da quello che impiego io, come area semantica di “rendere questo significato un oggetto”: egli intende che lo concettualizza, e lo priva di spessore esistenziale. Non sono certo che con questa affermazione applico al meglio il principio di misericordia interpretativa di Quine, ma spero di non esserci lontano.