BMCR 2020.04.38

Dynamis: sens et genèse de la notion aristotélicienne de puissance

, Dynamis: sens et genèse de la notion aristotélicienne de puissance. Bibliothèque d'histoire de la philosophie . Paris: Librairie Philosophique J. Vrin, 2018. 607 p.. ISBN 9782711627653. €39,00 (pb).

L’opera di Lefebvre è uno studio sulla genesi e sul senso della nozione di potenza come è utilizzata e definita da Aristotele: “Ce livre a pour fin, en éclairant l’histoire de cette notion, de mieux comprendre ses sens chez Aristote et leurs articulations avec les problematiques antérieurs de la puissance” (p. 32).

Il volume è costituito da nove capitoli suddivisi in tre parti: Puissance et limite; Formation de la notion de puissance chez Platon; Puissance, capacité et force. Degna di nota, come prezioso strumento messo a disposizione della comunità scientifica è la ricca bibliografia con la quale si chiude il volume. Proprio rispetto alla letteratura vasta già esistente sul concetto di dynamis in Aristotele e nella filosofia greca, ci pare di poter affermare che l’importante opera di Lefebvre risulta particolarmente utile in questo ambito di studi, poiché riesce contemporaneamente ad offrire una preziosa ricostruzione comparata del concetto di dynamis e della sua evoluzione nel pensiero greco, ma anche mette a disposizione degli studiosi un approfondimento del concetto stesso in Aristotele.

È ben noto il ruolo centrale che il concetto di dynamis, riferito alla modalità dell’essere in potenza, riveste nella risoluzione di alcuni snodi fondamentali della riflessione dello Stagirita. Primo tra tutti ci pare possa essere l’apporto che la distinzione dell’essere in potenza e dell’essere in atto abbia fornito alla teoria aristotelica della generazione, per la quale ci permettiamo di rinviare alla nostra monografia (Dal non-essere all’essere, Rubettino Ed., Soveria Mannelli CZ 2006) in cui veniva evidenziato proprio il peso che la distinzione dei sensi in cui si dice “essere” aveva avuto perché fosse possibile ad Aristotele parlare di una generazione (venire all’essere) in senso proprio. Infatti, solo con la distinzione dell’essere in potenza e dell’essere in atto, Aristotele riesce a superare il veto di Parmenide sull’impossibilità che il non-essere ad un certo punto sia, ma anche che l’essere in senso proprio possa ad un certo punto sfociare nel non-essere.

La ricerca di Lefebvre individua quattro momenti nella ricostruzione storica dell’uso della nozione: il primo è da rintracciare all’interno dei poemi omerici e riguarda il verbo dynasthai usato in forma negativa per esprimere impossibilità, mentre il sostantivo è usato per indicare ciò che “è in potere di qualcuno”, il secondo momento corrisponde alle opere di Esiodo, e al pensiero di Democrito e Senofonte in cui la dynamis indica, in contesti religiosi ed etici, la capacità dell’agente che non va oltrepassata. In questo secondo momento che caratterizza lo sviluppo e la determinazione del concetto di dynamis, essa designa l’insieme dei mezzi e delle capacità sui quali l’agente deve regolare la propria azione, evitando in tal modo sia il fallimento, sia la hybris della dismisura, che lo porterebbe al di là delle proprie capacità.

Un terzo momento è rintracciabile nei Dialoghi di Platone in cui la potenza diviene un principio di conoscenza e la definizione di un certo ente, sebbene in Platone non ci sia una vera distinzione tra la dynamis e l’ergon, poiché ciò che rende un ente quello che è, è la sua capacità di fare una certa cosa. Il quarto momento è costituito dalla speculazione aristotelica sulla dynamis. Grazie alla distinzione tra materia e forma, Aristotele arriva a distinguere la dynamis dalla sua funzione, che attiene maggiormente all’ambito dell’atto.

Lefebvre mostra che in Aristotele il concetto di potenza, oltre a mantenere le caratterizzazioni assunte in precedenza, rimanda ad un principio indeterminato sia nei Topici, sia nel libro Theta della Metafisica, tuttavia le analisi aristoteliche giungono a mettere in luce come già nella potenza è presente in un certo senso l’attuazione del fine da conseguire, in tal modo l’essere in potenza è in Aristotele un senso dell’essere. Comunque, a parere dello studioso, Aristotele mancò di osservare e trattare adeguatamente il concetto modale di potenza.

Le analisi di Lefebvre sono a tratti complesse e articolate spaziando attraverso diversi ambiti disciplinari. Questo forse può costituire una difficoltà per chi volesse accostarsi a questo aspetto della filosofia di Aristotele.

Ad esempio l’analisi lessicale e semantica del sintagma katà dynamin in tutte le sue possibili sfumature di significati risulta appesantire forse eccessivamente la scorrevolezza dello scritto. D’altre parte risulta uno strumento prezioso per gli studiosi già familiari alla questione e che vogliano ulteriormente approfondire.

Degna di nota ci pare la chiarezza concettuale con la quale l’Autore precisa che non è in alcun modo possibile applicare al concetto aristotelico di dynamis alcuna caratterizzazione vitalistica, o dipendente da un dinamismo interno :

dire que’elle possède la capacité de tel acte ne signifie pas que’elle le désire ou y tend, mais qu’il est sa fin et qu’elle ne pourra l’attaindre que par l’intervention d’un autre principe qui possède cette forme en acte. (p. 500)

In questo senso l’opera di Lefebvre, appropriandosi di tutto il sostrato concettuale e semantico relativo al termine dynamis, getta una luce nuova, volta a chiarire il ruolo della dynamis in Aristotele, che dal libro Theta spesso emerge in maniera oscillante tra una sorta di capacità attiva, che muove dall’interno un ente, e un senso di essere alternativo all’essere in atto.

La dynamis in Aristotele non è una forma di spontaneità, ma una capacità in vista di un fine, essa indica l’insieme dei mezzi necessari perché avvenga una certa azione, oppure perché si eserciti una certa funzione di un ente. E’ chiaro in Aristotele che la potenza è sempre orientata verso un fine, che è un “essere-in-atto”, ma ciò non vuol dire – afferma Lefebvre – che essa vada verso questo fine spontaneamente. E’ facile richiamare alla mente la lettura che Giorgio Agamben (Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995) dà di questi passaggi di Metafisica Theta insistendo proprio sul restare “sospeso” della potenza che non è detto si traduca in atto.

Dunque se è certamente vero che “si un être se définit par ce qu’il peut faire, c’est parce qu’il ne sera pas ce qu’il est, s’il est incapable d’accomplir sa fonction ou sa fin” (p. 543) è altrettanto vero che è necessaria la presenza di una certa forza (vis) ad essa esterna (causa motrice) in grado di condurla verso la realizzazione di quel fine.