BMCR 2016.10.09

Classical Literature: An Epic Journey from Homer to Virgil and Beyond

, Classical Literature: An Epic Journey from Homer to Virgil and Beyond. New York: Basic Books, 2016. xi, 270. ISBN 9780465097975. $27.99.

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Se il titolo “Classical Literature” è chiaro ma generico, il sottotitolo del libro di Richard Jenkyns potrebbe ingannare: l’aggettivo “epic” riferito a un ideale “viaggio” nel mondo letterario fa pensare all’epos, a cui rimanda ugualmente il richiamo a Omero e Virgilio. Si tratta invece di una breve storia della letteratura greca e latina, che va dalle origini al II secolo d.C. (l’ultimo autore trattato è Apuleio), concentrandosi sulla maggior parte degli esponenti di rilievo, ma non su tutti, tralasciando quelli meno noti e quelli giudicati meno interessanti.

Il criterio di selezione, indicato programmaticamente dall’autore nella prefazione (pp. IX-XI), consiste nella definizione di “letteratura” come “writing that has an aesthetic intent or value”: una definizione problematica. Infatti il giudizio di valore, anche qualora non sia strettamente soggettivo, dipende dai parametri estetici che vengono adottati e che rispecchiano le idee e il gusto di una determinata epoca, di una “scuola” o di una corrente culturale. Eppure Jenkins non esita ad affermare l’esigenza di esprimere un “giudizio estetico” sulle opere e di servirsene per ricostruire la storia letteraria con un’impostazione critico-valutativa, non meramente descrittivo-cronachistica: “literature, if it is any good, demands the reader’s response, and literary history must make judgements, if it is to be more than a list of facts” (p. X). È fin troppo facile contestare tale impostazione, stigmatizzarne i punti deboli e i rischi (dall’esito relativistico all’arbitrio del soggettivismo), ma essa si rivela efficace e feconda nel quadro storico-letterario tratteggiato da Jenkins, capace di esprimere valutazioni mirabilmente equilibrate, che rispecchiano una sensibilità estetica raffinata e duttile, sorretta da una conoscenza approfondita della letteratura antica e moderna, senza mai scantonare in giudizi estemporanei e impressionistici.

Il capitolo I è dedicato a Omero (pp. 1-22), con approccio “neo-unitario” più che “neo-analitico”: infatti, se è legittimo considerare l’ Iliade come “the creation of a single mind, using traditional material”, l’argomento addotto per dimostrarlo (l’oscillazione tra due o tre personaggi nell’ambasceria descritta nel libro IX) è perfettamente reversibile, anzi funziona meglio al contrario, come prova che il poema è il prodotto di più interventi che si sono succeduti nel tempo. Il tentativo di aggirare le sottigliezze della critica neo-analitica e della “oral theory” slitta in una petitio principii, che rispecchia se mai una posizione sentimentale: amo Homerum, ergo Homerus extat.

Tuttavia la temperie psicologica e morale dell’ Iliade è restituita lucidamente: “a story without villains” (Achei e Troiani sono considerati con lo stesso rispetto, con la medesima alternanza di ammirazione e compassione), in cui “men are godlike, women beautiful, the earth fertile and the sea full of fish”, come emerge anche dalle similitudini, che mostrano “the place of warfare within a world that contains so much else”; per gli “infelici mortali” che affrontano quotidianamente la guerra e la morte, “there is so much to lose”.

L’ Odissea si distacca dall’ Iliade “in the breadth of its social range”, che include personaggi umili, schiavi e perfino un cane. Il dualismo che informa il carattere del protagonista, valoroso guerriero di ascendenza iliadica e “folk-tale trickster” come Simbad il marinaio, trova riscontro nella dicotomia dell’ambientazione, che va dalle acque familiari dell’Egeo ad altre terre fantastiche e misteriose, popolate da creature divine o mostruose: il punto d’incontro tra questi due mondi è l’isola dei Feaci, “half magical” ma anche “reassuringly ordinary, and treated with delicate homour”.

Il capitolo II tratta la poesia greca arcaica (pp. 23-41) e muove da Esiodo, la cui Teogonia è interpretata finemente come “the prehistory of Greek science and Greek thought”, vale a dire “an attempt to explain how the world came into being, by what laws it is governed, and why the human condition has come to be as it is”. Spicca (non senza suscitare qualche perplessità) la definizione di “purely poetry” attribuita alla produzione di Saffo: una poesia non commista con altre espressioni culturali (come il dramma, la filosofia, la teologia) né legata a valori estrinseci (civili, sociali o morali); una poesia che aspira all’astrazione propria della musica “with an unusual fullness”. In risalto è messo il peculiare talento di Pindaro, che combina “a sense of the brevity and fragility of human affairs with the possibility of glory”, condividendo con l’epos omerico “that idea of man’s greatness and littleness”, ma attingendo “the hope of a serenity that in the epic belongs only to the gods”.

Il capitolo III introduce la trattazione della tragedia, soffermandosi però soltanto su Eschilo, per poi passare alla storiografia, con Erodoto e Tucidide (pp. 43-66). Sarebbe stato forse preferibile uno sviluppo non meccanicamente cronologico, che seguisse per intero il genere drammatico, per mostrarne l’evoluzione e per metterne a confronto i tre grandi esponenti. Magistrale il discorso su Eschilo, che si rivela “deeper than his critics”, come dimostra la sottile analisi dell’ Orestea (pp. 47-55). Troppo categorica però è la negazione della paternità del Prometeo incatenato, che sarebbe incompatibile con la drammaturgia di Eschilo “in too many ways, ranging from details of language and metre to larger matters of style and outlook” (senza ulteriore argomentazione).

Dai Persiani di Eschilo l’attenzione si sposta sull’opera storica di Erodoto, che è paragonata all’ Iliade per l’afflato epico e per la capacità di disciplinare e ricondurre “a baggy mass of material into unity”. Il senso del divino che pervade l’opera non ne infirma il carattere storiografico: “the idea of divine providence or envy can be combined with an explanation of events in purely natural terms”. Il passo decisivo è compiuto da Tucidide, che rimuove definitivamente gli dèi e i loro influssi dalla propria visione storica, concentrandosi sulle relazioni causali e sulla concatenazione degli eventi. Egli individua “two levels of causation”, distinguendo “the immediate reasons” e “the long-term problem” (la rivalità tra Atene e Sparta, che si contendono l’egemonia sulla Grecia). Lo sguardo lucido e disilluso dello storico vede il contrasto tra gli opposti ordinamenti, democratico e oligarchico, ma scorge “the real motive” che si nasconde sotto lo scontro ideologico: “avarice and ambition”.

La trattazione delle tragedia prosegue nel capitolo IV, con Sofocle ed Euripide (pp. 67-88). Il primo è considerato tradizionalmente “the most classical of the tragedians, the one in whom that calm and balance supposed to be the mark of fifth-century Athens were most consummately achieved”; ma Jenkyns lo descrive “as strange, savage and exteme”, nonché “the most enigmatic of the three”: nei suoi drammi non è facile trovare “some consolation, moral, or enlargement of understanding”. Anche la definizione dell’ Edipo re “as the purest type of tragic drama” è messa in discussione, poiché la storia “has two elements more akin to folk tale than to tragedy’s heroic naturalism”: l’enigma della Sfinge e “the idea that he is doomed to father-killing and incest, whatever he does”.

Jenkyns contesta ugualmente il pregiudizio di misoginismo che grava su Euripide, il quale “showed women plannning and carrying out bad deeds, but he looks sympathetically at the extremity that has driven them to these actions”: egli indaga e rivela i loro più profondi pensieri e sentimenti, mostra i motivi che le hanno portate all’esasperazione e all’abbrutimento. La Medea “may fairly be called a feminist play”, la cui protagonista “eloquently and accurately sets out the disadvantages that women suffer”. Non mi sembra però condivisibile il tentativo di Jenkyns di smentire quello che lui considera a torto un altro pregiudizio, il pacifismo di Euripide.

Nello stesso capitolo si parla anche della commedia di Aristofane, che incarna “the comic impulse as essentially carnivalesque, the release of repression, the bubbling up of the id, rude and anarchic, from the depths of the psychic mire”. È un grande merito di questo poeta, che scrive in un difficile periodo di guerra, “to convert war-weariness into exuberance”. La commedia dell’evasione giunge alle estreme conseguenze negli Uccelli, ma la domanda “escape from what?” non trova una risposta esplicita. Non menzionare mai la guerra sembra essere la tacita regola.

Dopo un sintetico ritratto di Senofonte, “a gentlemanly soldier of conservative disposition” che ha realizzato “a remarkable number of firsts” (il primo trattato di argomento economico; il primo romanzo storico, che è anche il primo romanzo in generale e, aggiungerei, il primo romanzo di formazione; la prima biografia; il primo memoriale), il capitolo V delinea un quadro d’insieme sull’oratoria classica (in cui emergono Lisia, Isocrate e Demostene) e sulla filosofia, con Platone e Aristotele (pp. 89-101). Il dibattito storico-critico su quale dei due pensatori meriti il primato è ripercorso rapidamente, per evidenziare la loro importanza nella successiva evoluzione della filosofia e della cultura occidentale, in cui si distingue “a Platonist tradition, lofty, transcendent, ideal, against an Aristotelian tradition which is practical and empirical”. Allo Stoicismo e all’Epicureismo sono dedicati appena 14 righi: sarebbe stato preferibile non parlarne affatto.

Il capitolo VI verte sull’Ellenismo (pp. 103-117). Colpisce il giudizio riduttivo su Callimaco, il cui talento poetico è drasticamente ridimensionato, così come è sminuito il rapporto di ammirazione ed emulazione instaurato nei suoi confronti da gradi poeti latini, come Properzio e Ovidio. Di contro, Teocrito è apprezzato come “the one Hellenistic poet who significantly enlarged the range of poetic possibility”, in quanto “he discovered a particular kind of poise, in which engagement and detachment, distance and detail, charm of surface and warmth of feeling are combined”.

Il capitolo VII ripercorre le origini della letteratura latina e il suo sviluppo nel periodo repubblicano (pp. 119-148). Il carattere imitativo e derivativo, insieme con “a kind of self-consciousness that had hardly existed in Greece until the fourth century BC”, costituisce la peculiarità della nascente cultura romana: “there is a charm in the sense of belatedness, the interplay of tradition and the original talent, an author’s exploration of his relationship with the literature of the past”. Il quadro storico- letterario del periodo arcaico risulta però lacunoso: si passa direttamente da Livio a Ennio, senza neppure accennare a Nevio (il fondatore dell’epos di argomento storico); troppo scarno il profilo di Plauto, di cui sono menzionate soltanto due commedie, Captivi e Rudens (indubbiamente interessanti, ma non le più rappresentative della sua arte); Pacuvio e Accio sono menzionati fugacemente.

Meglio sono trattati gli autori del periodo tardo-repubblicano, tranne forse Cicerone, di cui troppo severamente è stigmatizzato l’eclettismo, l’approccio superficiale e quasi dilettantesco con diversi temi e generi letterari. Cicerone non è soltanto un grande oratore e maestro di retorica: egli attinge una relativa originalità anche nella produzione filosofica (pur non essendo un vero filosofo e pur non elaborando un sistema globale), per la capacità di discutere criticamente le diverse teorie, senza esitare ad appropriarsene e talvolta a contaminarle, secondo i propri scopi. A Jenkyns non sfugge l’afflato religioso del poema di Lucrezio, che appare “saturated in religious imagery”, a cominciare dall’inno a Venere. La forza della sua poesia promana dall’attitudine “to combine disparate and even opposite elements: lofty and everyday language, poetry and philosophy, the smallest particles of matter and the whole universe, epic and didactic verse, materialism and the numinous”. Il fulcro della poesia di Catullo è invece nella sua “autenticità”, nella sincerità dell’esperienza e della passione (al di là delle speculazioni della critica, che spesso ne ha denunciato la “letterarietà”).

Il capitolo VIII è dedicato a Virgilio (pp. 149-171). Sono evidenziati alcuni elementi significativi, come il rapporto tra gli aspetti fisici del mondo rurale e il messaggio morale nelle Georgiche (una sorta di “allegoria capovolta”) o la descrizione dell’Italia come “a blend of man and land, nature and culture, history, time and timelessness”, che rappresenta “one of the greatest moments of crystallization in all poetry”. L’ Eneide è interpretata come “a poem concerned with salvation”, analogamente al poema di Lucrezio, salvo che Virgilio “finds it not through the individual but in city, society, tradition and institutions”. Sul presunto “fallimento” di Enea come personaggio, Jenkyns osserva che la sua “debolezza”, se pure esiste, “is more likely to feeling too much that feeling too little”: egli è un eroe passionale, spesso in preda a sentimenti violenti, come dimostra l’uccisione di Turno nella scena finale.

Il capitolo IX (pp. 173-200) completa il quadro del periodo augusteo, a cominciare da Tibullo e Properzio (“the poet as lost soul or moral outlaw”, ma anche “the lover as aesthete”, la cui sensibilità “is steeped in literature and visual art”). Più spazio è dedicato a Orazio, la cui poesia combina “detachment and intimacy, solemnity and humour, philosophy and vivid scene-painting”. Vivace e originale il ritratto di Ovidio, il quale “is not simply a prankster, and his concern is not only with literature but with life”: l’oggetto del suo amore “is not so much the ladies as the life of Rome”; ben poco si dice però della sua poesia dell’esilio. In questo capitolo è inserito anche un sintetico excursus retrospettivo sul genere storiografico, che si sottrae al rigoroso ordine cronologico del libro e che manca altresì di senso delle proporzioni (soltanto 20 righi su Cesare, 30 su Sallustio, ma 24 su Asinio Pollione), concludendosi con un breve e denso profilo di Livio.

Il capitolo X (pp. 201-232) tratta il periodo alto-imperiale, seguendo il discutibile schema tradizionale che, dopo l’età “aurea” di Augusto, vede quella “argentea” sotto Nerone: “a revival of quality, but less brilliant than that earlier flowering”. Uno schema di tipo classificatorio e involutivo, in cui i parametri di giudizio evinti dal periodo augusteo sono applicati antistoricamente a diverse epoche. Jenkyns sembra cedere a un pregiudizio classicistico, introducendo “a novel phenomenon: the ‘bad good’ or ‘good bad’ writer”, ovvero “a kind of writing in which the author’s badness seems so much part and parcel of his merit that they cannot easily be separated”. Il giudizio di Jenkyns su Seneca riecheggia in parte quello di Quintiliano, in parte quello di Nietzsche (specialmente per l’accusa di “self-complacency”, basata sulla constatazione che “he is more interested in the nobility of his own sentiments than the people whom he pities”). Il Bellum ciuile di Lucano è definito “tertiary epic” per la sua impostazione “satiric, anti-heroic and personal”, che lo distingue dall’epos omerico (“primary epic”, che sarebbe “the supposedly natural product of a supposedly primitive age”) e da quello virgiliano (“secondary epic”, cioè “the self-conscious recreation of primary epic’s form”).

Sorprende, ma non dispiace, l’attenzione dedicata da Jenkyns alle lettere di San Paolo e ai Vangeli come opere letterarie, le cui qualità estetiche “have also been underestimated”. L’ Apocalisse di Giovanni è definita “perhaps the most imaginative and compelling work of prose fiction in Greek” (nel capitolo XI, p. 234). Mi chiedo, nondimeno, perché la letteratura cristiana sia esclusa dalla trattazione.

Il profilo di Giovenale è descritto incisivamente, con tratti originali. L’ indignatio, dichiarata fonte d’ispirazione della sua satira, è interpretata come una strategia retorica, tesa a rendere forte, vivace, aggressiva la sua esposizione. Egli sarebbe “a declaimer” più che un poeta: “an advocate making a particular case as strongly as he can”. D’altro canto, è ridimensionato e quasi sacrificato l’altro poeta satirico del periodo imperiale, Persio, a cui sono dedicati soltanto 8 righi, senza nemmeno un accenno allo Stoicismo, che è il principale tema ispiratore dei suoi componimenti.

Il libro si conclude con un breve capitolo sui romanzi di Petronio e Apuleio (pp. 233-241), in cui non mancano osservazioni interessanti (per esempio, sui diversi livelli di lettura della favola di Amore e Psiche o sulla festa di Iside nel finale delle Metamorfosi), e con un “epilogo” (pp. 243-245) che ribadisce l’importanza dell’eredità culturale della letteratura greca e latina: un discorso che potrebbe sembrare scontato e perfino banale, ma risulta purtroppo utile nel momento storico attuale, in cui la cultura antica è spesso svalutata o trascurata in nome di un malinteso senso della modernità e del progresso.