BMCR 2009.08.54

Hellenistic Bookhands

, , Hellenistic Bookhands. Berlin/New York: Walter de Gruyter, 2008. xvii, 153. ISBN 9783110201246. €98.00, $118.00.

A distanza di 21 anni dalla pubblicazione dell’ottimo Greek Bookhands of the Early Byzantine Period: A.D. 300-800 (London 1987), G. C(avallo) e H. M(aehler) rinnovano il proficuo sodalizio scientifico con il presente Hellenistic Bookhands, un’eccellente raccolta di tavole destinata sin d’ora a comparire sulla scrivania di ogni papirologo, paleografo e, più in generale, di ogni studioso di storia della tradizione dei testi e della cultura greca, accanto al sempreverde Greek Manuscripts of the Ancient World di E.G. Turner (Second Edition Revised and Enlarged by P.J. Parsons, London 1987) ed a R. Seider, Paläographie der griechischen Papyri, I-III.1, Stuttgart 1967-1990.

Come spiegano i due autori nel Preface (pp. V-VII), il presente volume raccoglie ed analizza 96 papiri greci egiziani ed ercolanesi databili tra il IV sec. a.C. ed il I sec. d.C., selezionati in base alla rilevanza ed alla datazione certa o probabile — gli autori hannugrave;o cercato di stabilire la loro cronologia relativa e, se possibile, assoluta — e quindi raggruppati secondo affinità stilistiche da C. (con l’aiuto di E. Crisci, P. Degni e F. Ronconi). In tal senso, Hellenistic Bookhands può essere utilmente letto in parallelo alle pp. 21-78 del recentissimo studio di C., La scrittura greca e latina dei papiri. Una introduzione (Pisa-Roma 2008; cf. J.A. Straus, BMCR 2008.12.26).

All’indice (pp. IX-XI) ed alle Abbreviations and Bibliography (pp. XIII-XVII) segue la densa Introduction (pp. 1-24): la prima parte (pp. 1-17) offre una panoramica dell’evoluzione della scrittura greca (anche sotto il profilo socio-culturale) nel contempo sintetica e accurata, con puntuali rimandi alle tavole illustrative, che costituiscono il cuore del volume; la seconda (pp. 18-24) allarga l’orizzonte di studio all’impaginazione ed agli aspetti paratestuali, al cui riguardo C. e M. sottolineano l’indubbio ruolo giocato dall’attività dei filologi alessandrini. Queste pagine, in considerazione del loro ruolo preliminare, meritano dunque di essere brevemente analizzate, seppure in modo necessariamente cursorio.

Le tappe evolutive della storia della scrittura alfabetica greca — i Καδμήια γράμματα della celeberrima definizione erodotea (V 58) — sono ripercorse a partire dalle prime attestazioni epigrafiche e vascolari, cui è dato il meritato rilievo, soprattutto sulla base di L. H. Jeffery, The Local Scripts of Archaic Greece (Revised Edition with a Supplement by A. W. Johnston, Oxford 1990): fin dal confronto tra le scritture epigrafiche recate dal famoso vaso del Dipylon (Jeffery, o.c. 68 e pl. 1,1) e da un frammento di coccio con una scritta in alfabeto corinzio (Jeffery, o.c. 116 e pl. 18,1a-b) si può notare la coesistenza, già nel tardo VIII secolo, di differenti livelli di educazione grafica, da non confondersi con stadi diversi di evoluzione della scrittura. Tuttavia, per studiare le caratteristiche della scrittura greca arcaica non bisogna rivolgersi solo alle testimonianze su pietra, ma anche e soprattutto a quelle vascolari. Dal momento che i testimoni pervenuti sembrano suggerire che, “apart from some minor regional variations, there was, in the 6th and 5th centuries, a kind of graphic κοινή, of standard Greek script which did not change or evolve much during this period” (p. 4), è quindi inevitabile domandarsi il motivo di questa apparente staticità, spiegata alla luce di un modello ideale di riferimento, costituito dalle contemporanee scritture su pietra; secondariamente ci si chiede se questo tipo di scrittura fosse l’unico esistente, usato non solo per i bookrolls, ma anche per contratti e corrispondenza privati (p. 4). Scartato l’ argumentum e silentio della mancata sopravvivenza di altre tipologie grafiche, sulla base di due lavori di R. Thomas ( Oral Tradition and Written Record in Classical Athens, Cambridge 1989 e Literacy and Orality in Ancient Greece, Cambridge 1992), C. e M. concludono che “it seems unlikely that there was a need, in either commercial or legal context, for large amounts of text to be written rapidly. It therefore seems safe to assume that the apparent absence of any type of joined-up writing or cursive is due not to coincidence, but to lack of demand” (p. 5). In effetti già W. Schubart ( Griechische Palaeographie, München 1925, 101), sebbene fosse persuaso dell’esistenza di forme di scrittura documentaria tra VI e IV sec. a.C., dovette ammettere suo malgrado che le scritture librarie e documentarie della metà del III secolo sembrano essere “eine natürliche Entwicklung” (p. 102) dei più antichi esempi di scrittura su papiro del IV secolo. Con ciò, tuttavia, non mi pare si voglia escludere l’esistenza di documenti almeno nell’Atene di fine V secolo:1 basti citare, ad esempio, il fr. 578 K. del Palamede di Euripide (per cui cf. C. Neri, “Eikasmós” 18, 2007, 167-171), rappresentato nel 415 a.C., dove il protagonista espone in una frigida arringa alcune funzioni della scrittura da lui inventata, che consentirà scambi epistolari a distanza, la possibilità di redigere accurati testamenti e di dirimere controversie in tribunale tramite memorie redatte su δέλτοι. Inoltre, riguardo alla creazione ed all’impiego di forme corsive non è trascurabile il ruolo giocato dalla tipologia del supporto materiale: l’uso di tavolette scrittorie in ambito documentario, dove tradizionalmente prevalgono scritture dal ductus più rapido, potrebbe forse averne impedito (o quantomeno rallentato) la nascita e l’evoluzione, mentre l’utilizzo di un supporto più favorevole quale il papiro pare invece limitato al contesto librario e scolastico (graficamente più conservativo) fin da un’epoca alta, come mostra la coppa di Duride (Berlin, Antikensammlung, F 2285), databile a cavallo tra VI e V secolo.2 Ad ogni modo, l’esistenza ad Atene di forme corsive, alcune delle quali non accolte dalla corsiva evolutasi in ambiente egiziano (vd. infra), è attestato da H. R. Immerwahr, Attic Script. A Survey, Oxford 1990: in particolare, nel tardo V secolo due vasi attici offrono l’ epsilon dal tratteggio rotondeggiante (p. 139), mentre il sigma lunato fa la sua comparsa in un’epigrafe di metà IV secolo (p. 160).

Dopo aver delimitato il campo di indagine e fornito alcune precisazioni terminologiche (con “script” si intende qui “a particular type of stylized handwriting”, con “hand”, invece, “the personal handwriting of a particular scribe”, p. 6; con “bookhand”, infine, “those scripts that keep the letters separate and bilinear, i.e. confined between notional upper and lower parallel lines, generally with the exception of phi and psi, slowly written in the attempt to emulate the regularity seen in most stone inscriptions”, p. 7), si giustifica la presenza tra gli specimina proposti di scritture documentarie sulla base del fatto che, sotto il profilo metodologico, “it seems appropriate to study scripts in all their diverse manifestations, whatever the content they convey” (p. 6) e, secondariamente, perché i documenti datati o databili offrono validi punti di riferimento per la datazione di papiri letterari.

Fatte tali premesse, C. e M. ripercorrono l’evoluzione della scrittura greca del periodo considerato dal volume: la medesima coesistenza di mani esperte e no che si riscontra nelle prime attestazioni di VIII secolo si registra anche nei due più antichi papiri letterari superstiti, entrambi influenzati dai modelli epigrafici ( Inschriftenstil), il papiro di Derveni (P. Thessaloniki) e quello dei Persiani di Timoteo (P. Berol. 9875). Se nel primo le lettere sono molto regolari e perciò vergate da una mano esperta, che sembra ispirarsi alle iscrizioni redatte nel cosiddetto ‘ στοιχηδόν -Stil’ (per cui cf. p. 5), non altrettanto si può dire del secondo, dal momento che “the lyric verses are written like prose and in very long lines of unequal length (without alignement on the right margin), and most of the individual letters fall far short of the epigraphic ideal of regularity, i.e. of letter forms of equal height and width” (p. 7). Anche se l’osservazione della differente educazione grafica delle due mani è certamente giusta, non va tuttavia escluso che il layout dei due papiri possa essere in un certo senso tradizionale (al riguardo cf. p. 18): in particolare, la prassi di scrivere i versi lirici come prosa riscontrabile in P. Berol. 9875 trova un’attestazione letteraria in un passo delle Leggi platoniche (810b4-c2), concernente l’educazione letteraria dei giovani, e ricorre, ad esempio, anche nei cosiddetti ‘carmi di Elefantina’ di P. Berol. 13270 (nr. 6 del presente volume), un papiro di inizio III sec. a.C. di estremo interesse per la problematica convivenza di due mani, una delle quali più ‘arcaica’, come risulta evidente dal tratteggio di singole lettere (in particolare epsilon, my, ny, tau ed omega; cf. U. Wilcken, “APF” 7, 1924, 66 e da ultimo B. Bravo, Pannychis e simposio, Pisa-Roma 1997, 45-48).

“By 300 BC, no form of cursive writing had yet been developed, so that letters and documents as well as poetry were written in the same type of script, with regular, unconnected and unabbreviated letter forms modelled on those of stone inscriptions” (p. 8). In effetti, una scrittura non più massicciamente influenzata dal modello epigrafico emerge solo dalla metà del III sec. a.C. (si veda l’evoluzione del tratteggio di tre lettere-guida: epsilon, sigma 3 ed omega). Tale processo di emancipazione dall’ideale lapidario è comunque un prodotto egiziano: le cause sono ricondotte dagli autori alla fondazione della biblioteca di Alessandria, che deve aver prodotto un’intensa attività di copiatura, la quale “must almost automatically have forced the scribes to develop not only ways of accelerated writing, but also graphically standardized and refined letter forms and editorial conventions” (p. 9). In ogni caso, tra III e II sec. a.C. si cominciano ad osservare differenze formali e stilistiche nelle scritture calligrafiche, legate alla ricerca del contrasto modulare ed alla presenza di apicatura.

A partire dalla metà del III secolo, “book hands and documentary cursive hands … part company and go their separate ways, but never so far apart that they could not be influenced by one another” (p. 10). In effetti, la vera innovazione che si riscontra in questo periodo è indubitabilmente lo sviluppo della scrittura corsiva (p. 11): se l’inizio di questa fase risale già a P.Eleph. 3 del 282 a.C., dove le lettere appaiono drasticamente semplificate in confronto a P. Eleph. 1 del 311/310 a.C., l’evoluzione decisiva si riscontra nelle scritture dell’archivio di Zenone. Queste sono suddivisibili in quattro tipologie principali: “(1) hands that use abbreviated letter forms, writing rapidly but with few ligatures; (2) fully stylized chancery hands, most of which were written in Alexandria [la cosiddetta ‘cancelleresca alessandrina’]; (3) hands modelled on these; (4) hands that write careful, unconnected majuscules” (pp. 11-12).

Nel II secolo, invece, predomina uno stile caratterizzato dalla “balanced regularity” (p. 15), con prevalenza del modulo quadrato o, meno di frequente, rettangolare, con gradazioni intermedie. Si osservano inoltre “the slight curvatures of most upright and diagonal strokes, and the frequent use of serifs at the end of strokes” (p. 15), mentre le scritture corsive presentano numerose varietà. Nel corso dei secoli successivi (I a.C. e I d.C.), accanto a bookhands più tradizionali si affermano nuove tipizzazioni, quale, ad esempio, lo ‘stile rotondo/quadrato’ e lo ‘stile epsilon-theta‘; nel contempo, tuttavia, aumenta il numero di attestazioni di testi letterari copiati in modo più trascurato. Quanto infine alle scritture di Ercolano, emerge una certa continuità con quelle egiziane: ciò può dunque essere “an indication both of stylistic continuity over time and of existence of a koiné of Greek literary scripts across the Mediterranean world” (p. 17).

Alla luce di questa panoramica, C. e M. concludono che, in primo luogo, la distinzione tra bookhands e mani corsive o documentarie si ha solo a partire dalla metà del III secolo, con la nascita e lo sviluppo delle burocrazie centralizzate dei regni tolemaico e seleucide; secondariamente, il predomino del modello epigrafico come ideale calligrafico può spiegare il fatto che “Greek bookhands remain conservative”, almeno fino al II d.C. Nel periodo ellenistico, inoltre, “there is hardly any differentiation between types of literary hands, apart perhaps from a ‘serifed’ type in the 2nd century and the so-called epsilon-theta style in the first”: stili chiaramente definiti saranno invece riconoscibili solo nel periodo romano; infine, il modello epigrafico determina anche il fatto che “elegant, professional book rolls of the Hellenistic period are written in scriptio continua“, motivo dell’invenzione di un complesso sistema di segni diacritici di ausilio alla lettura.

La parte più rilevante del volume sono certamente i Texts and Plates (pp. 25-143): alle 96 tavole (in bianco e nero) sono affiancate sintetiche schede di commento a cura di M., contenenti la bibliografia essenziale, una descrizione delle caratteristiche salienti della scrittura e la trascrizione integrale o parziale dello specimen. Come si è detto, i papiri sono stati raggruppati per classi stilistiche, alla fine delle quali C. ha aggiunto un utile commento stilistico. Ogni studioso potrà valutare di persona l’indubbio valore delle descrizioni paleografiche proposte, di cui non è possibile in questa sede dare conto in maniera dettagliata. Per dare un’idea della ricchezza della raccolta, segnalerei solo che figurano qui anche il P. Köln XI 429 + 430 (nr. 8), contenente la cosiddetta ‘nuova Saffo’, ed un inedito, il P. Mil.Vogl. inv. 1297 (nr. 39), un documento che sarà pubblicato da C. Gallazzi come P. Mil.Vogl. IX 323, databile al 182 a.C., in quanto proveniente dal medesimo cartonnage di P. Mil.Vogl. VIII 309 (nr. 28), l’importante rotolo di Posidippo, anch’esso riprodotto nel presente volume.

Chiudono il volume la List of papyri (pp. 145-148), gli Ancient authors (p. 148), il General index (pp. 149-152) ed i Photographic credits (p. 153).

In conclusione, ai due autori va la dovuta e meritata gratitudine per aver messo a disposizione della comunità scientifica un eccellente volume, che sin d’ora costituirà anche un valido sussidio per l’insegnamento della papirologia e della paleografia greca dei primi secoli. Di fronte al presente album ed al precedente, non si può che esprimere l’auspicio, che credo condiviso da molti studiosi, che l’opera sia completata con la raccolta e lo studio dei prodotti grafici del II e III secolo, cruciali per la storia dei testi e della scrittura.

Notes

1. Sui contratti in ambito commerciale ad Atene dal IV sec. a.C., cf. Thomas, Oral tradition cit. 38-45 e D. Cohen, Writing, Law, and Legal Practice in the Athenian Courts, in H. Yunis (ed.), Written Texts and the Rise of Literate Culture in Ancient Greece, Cambridge 2003, 78-96: 92-96.

2. Cf. al riguardo P. Degni, Usi delle tavolette lignee e cerate nel mondo antico, Messina 1998, 18-25 e L. Del Corso, “S&T” 1 (2003) 5-78: 27-32 e 59-61 con esauriente bibliografia.

3. C. e M. ricordano che la prima testimonianza su papiro del sigma lunato (cioè corsivo) risale al P. Vindob. G 1 (l’imprecazione di Artemisia), databile al tardo IV sec. a.C.: tale forma “is clearly derived from the sigmas of the Timotheos Papyrus” (p. 8; una spiegazione differente era data da J. H. Wright, “TAPhA” 27, 1896, 79-89). Questa compare però già a metà del IV sec. a.C. in un’epigrafe attica (vd. supra) e trova la sua prima attestazione letteraria in Escrione, SH 6 (probabilmente un contemporaneo di Aristotele); per ulteriori approfondimenti al riguardo cf. anche Seider, Paläographie cit., III.1, 143s.